La trattativa semina noia, ma ci dice molto della Giustizia italiana

Riccardo Arena
Del processo sulla trattativa Stato-mafia avevano capito tutto in due: il pubblico ministero Paolo Guido e l’ex pubblico ministero Antonio Ingroia

Palermo. Del processo sulla trattativa Stato-mafia avevano capito tutto in due: il pm Paolo Guido, che lasciò volontariamente il pool inquirente, perché dopo avere indagato aveva capito che non era “strada che spuntava”, e l’ex pm Antonio Ingroia, che lasciò l’Italia e poi la magistratura, dopo avere ottenuto che il suo ufficio chiedesse il giudizio per dieci imputati, uno dei quali, Calogero Mannino, ieri mattina è stato assolto per non aver commesso il fatto. A pensarci bene, sebbene siano due figure totalmente diverse, Guido e Ingroia, entrambi dentro di sé avevano colto l’essenza di un processo che oggi, tre anni e mezzo dopo quelle estenuanti giornate di primavera del 2012, in cui si decise se e come mandare a giudizio gli imputati, si trascina stancamente, nel disinteresse generale. Il troncone andato in abbreviato, con Mannino unico imputato, si è chiuso oltre due anni dopo la celebrazione della prima udienza; la tranche che è a dibattimento in Corte d’assise, per un reato controverso anche dal punto di vista giuridico, avanza alla media di cinque-sei udienze al mese, ma ne avrà ancora perlomeno fino al 2017, se tutto va bene.
Spuntano, a commentare la sentenza Mannino, personaggi ormai dimenticati (Follini, Giovanardi, Buttiglione, Saverio Romano, Ferrero), come dimenticato era questo procedimento, che pure tanto aveva diviso, nel momento in cui l’aspirante guatemalteco Ingroia – poi pure aspirante premier, ripescato da Crocetta alla guida di una società pubblica, oggi anche avvocato dei compari del “suo” superteste, Massimo Ciancimino – aveva ottenuto che tutti i colleghi firmassero l’avviso di conclusione delle indagini.

 

Tutti, appunto, meno Paolo Guido, magistrato attento, spirito critico e capace di andare oltre quel che fece il debole procuratore Messineo, pure lui perplesso, ma capace solo di non firmare quell’avviso e poi pronto a vistare la richiesta di rinvio a giudizio. Tecnicismi? Tutt’altro. In quelle firme – mancanti, rimosse, evitate – e nella scelta di Ingroia di volere a tutti i costi un processo che, lui lo sapeva benissimo, non avrebbe affrontato mai in prima persona, c’è l’essenza di una storia infinita. E in fondo non ha torto don Ciotti, quando dice che “in Italia il 75 per cento dei familiari delle vittime della mafia non conosce la verità sulle stragi”. Ma non mente neppure uno dei legali di Mannino, l’avvocato Nino Caleca, quando spiega che “i processi penali non sono i luoghi più adatti a ricostruire la storia”. E ha un bel da fare, il pm Nino Di Matteo, ad arrabbiarsi per le stilettate dell’imputato: perché al magistrato superminacciato dalla mafia si possono riconoscere ostinazione e buona fede, ma a che vale insistere su un costrutto accusatorio oggi smontato persino da un giudice come Marina Petruzzella, accompagnata – tra gli imputati – da una non certo favorevole fama di “condannista”? Eppure questo processo si è dovuto fare, a tutti i costi, e proseguirà anche oggi, davanti alla corte d’assise e dunque ai giudici popolari, poco avvezzi alle complesse problematiche giuridiche di un giudizio smontato da giuristi come Giovanni Fiandaca e storici come Salvatore Lupo. Rimarranno sempre dubbi e veleni sulla stagione dei grandi processi, che divise il paese, ma ormai ha fatto il suo tempo e appartiene anch’essa alla storia: morto Andreotti, scontata la pena Contrada, in carcere Dell’Utri. Ma del processo sulla trattativa c’era veramente bisogno? Dell’ennesimo giudizio contro Mannino, da ventidue anni di professione imputato e sempre assolto, non si poteva proprio fare a meno?

 

[**Video_box_2**]Intanto a Palermo energie e polemiche sono state utilizzate – qualcuno dice sprecate – mentre a Roma, Venezia, Bologna, Firenze, Napoli e Milano si è smontata e rimontata l’Italia. Solo ora timidamente affiorano le tangenti anche in Sicilia e il caso Saguto scuote i palazzi di giustizia di tutto il paese. Solo ora Palermo comincia a guardare al futuro e non a caso il procuratore Lo Voi dice che vuole leggere le motivazioni, prima di ricorrere in appello contro Mannino. In attesa della sentenza del processo sulla trattativa, che arriverà forse nel 2017, ma di cui non frega più niente a nessuno già adesso.

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