Calogero Mannino

"I miei 25 anni di tortura giudiziaria". Calogero Mannino parla al Foglio

Annalisa Chirico

Nel 1991 un pentito ha tirato in ballo il nome dell'ex ministro, oggi il gup di Palermo lo ha assolto nel processo sulla presunta trattativa stato-mafia "perché non ha commesso il fatto". Da Caselli a Ingroia e Di Matteo. Difesa, mascariamento e resurrezione di un perseguitato dalla giustizia mediatica.

“Per me si conclude una venticinquennale tortura giudiziaria”, Calogero Mannino è seduto sulla poltrona nello studio biblioteca della sua casa palermitana di fronte a Villa Sperlinga. A pochi metri c’è la moglie Giusi che lo guarda in silenzio e, di tanto in tanto, scuote il capo. “Questo calvario mi ha condannato a una vita agra, come il titolo del romanzo di Luciano Bianciardi”. E se nel romanzo il protagonista si trasferisce dalla provincia a Milano, disorientato e scosso dalle conseguenze del boom economico degli anni Cinquanta, nella vita reale di Calogero Mannino il boom giudiziario lo obbliga a un mestiere nuovo. “Difendersi è un lavoro che ti occupa la giornata intera. Vai a Roma, incontra gli avvocati, raccogli i ritagli di giornali, procùrati i documenti, nulla può essere lasciato al caso. Ho trascorso così gli ultimi venticinque anni. Che cos’è questa se non una persecuzione?”. 1991: per la prima volta un pentito tira in ballo il nome del referente della Dc siciliana, lo accusa di rapporti con la mafia, la procura di Trapani indaga ma nel giro di qualche mese il caso è archiviato. 1995: la procura di Palermo lo accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, Mannino trascorre nove mesi dietro le sbarre e tredici ai domiciliari. Nel 2010 è definitivamente assolto. 2008: Mannino è indagato per la presunta trattativa stato-mafia. Per l’accusa avrebbe ispirato e istigato un accordo volto a porre fine alla stagione stragista in cambio di un’attenuazione delle misure detentive previste dal 41bis. Oggi il gup di Palermo Marina Petruzzella lo assolve per non aver commesso il fatto.

 

“Gli stessi pm che mi accusavano di essere socio esterno della mafia mi hanno imbarcato capricciosamente nel processo che mi vede assolto”, il riferimento non troppo velato è ai magistrati Antonio Ingroia e Vittorio Teresi. “Appena Giancarlo Caselli s’insediò a capo della procura palermitana, i due cominciarono a indagarmi. Non sono riusciti ad ottenere una condanna. In compenso Ingroia si è lanciato nella politica, ha fallito e non mi risulta che il suo libro abbia riscosso un gran successo di pubblico. Travaglio ha più fortuna”. Mannino ha passato gli ultimi venticinque anni a difendersi nei processi, come se il processo non fosse in sé una pena. “Difendersi dal processo è un diritto perché la difesa in un’aula di tribunale comporta una fatica immane. Varcare la soglia del palazzo di giustizia è un dolore. In questi anni mi è stato impedito di vivere. La nevrosi mi ha tolto il sonno, mi aggiro per casa alle due di notte, ingoio del pane per calmare l’ansia. Se mi avessero ucciso non avrei patito il medesimo travaglio”.

 

Ingroia, autore dell’impalcatura accusatoria sulla presunta trattativa stato-mafia, ha abbandonato il processo all’apertura del dibattimento. “Voleva evitarsi una brutta figura, e ha lasciato la patata bollente al collega Nino di Matteo”. Il quale ha già annunciato che la pubblica accusa ricorrerà in Appello, sebbene il procuratore capo Francesco Lo Voi lo abbia poi corretto riservandosi di valutare il caso dopo il deposito della sentenza. “Che credibilità può avere un pm che annuncia il ricorso senza aver letto le motivazioni?”, si domanda Mannino. “Lo sa che io mi muovevo con la scorta? Nel 1983 da commissario della Dc siciliana nel congresso di Agrigento misi fuori dal partito Vito Ciancimino, ben sapendo che ciò avrebbe generato risentimento nel suo milieu apertamente mafioso. Il maxiprocesso ha segnato una svolta, ed è stato un risultato dello stato. Dal gennaio del ’93 in poi i capi di Cosa nostra sono stati catturati”. Per la mancata perquisizione del covo di Riina altri uomini dello Stato, l’allora capo del Ros Mario Mori e il carabiniere Sergio de Caprio, sono stati processati e assolti. “E’ un’aberrazione tutta italiana: chi combatte concretamente la mafia si ritrova alla sbarra accanto ai mafiosi. Contro di noi hanno puntato il dito pm e criminali in una occasionale convergenza dei contrari. Questo processo, infarcito di errori di torsione cronologica, fa acqua da tutte le parti perché si basa su una suggestione buona forse per gli storiografi ma non per le aule di tribunale”.

 

Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo hanno demolito il lavoro del pool di Palermo in un saggio dal titolo “La mafia non ha vinto”. “E’ il lavoro eccellente di due stimati professori. Lo stato, certo, si è servito del pentimento che è un surrogato della trattativa. In proposito ci aveva visto lungo il dottor Falcone che suggeriva di centralizzare la gestione dei pentiti all’interno della procura nazionale antimafia per evitare degenerazioni e dinamiche viziate nel rapporto tra singoli pm e singoli pentiti”. “Contro di  me – continua Mannino – hanno riesumato l’articolo 338 del codice penale, il reato di violenza al corpo dello stato, che Mussolini non si sognò di applicare contro i suoi nemici”. Quanto al mascariamento di un ex ministro accostato sui giornali a noti boss mafiosi, Mannino è lapidario: “E’ un atto manipolativo, un uso improprio della comunicazione. Insomma, una roba da mascalzoni”. Il Fatto quotidiano ha cavalcato la tesi della procura. “Mi hanno rimproverato perché ho definito Travaglio un guitto, un commediante. Ma come potrei chiamare uno che recita a teatro la requisitoria del pm ancor prima che sia esposta in tribunale?”.

 

[**Video_box_2**]Per chiudere, gli chiedo se nel marasma giudiziario abbia avuto il tempo e la voglia di seguire la politica italiana. “Renzi è il più togliattiano di tutti, realpolitik allo stato puro. Svolge il ruolo che fu della Dc. Mentre Occhetto e D’Alema s’illudevano di spaccare la Dc per governare il Paese da sinistra, lui spacca il Pd per governare dal centro”. Adesso Mannino e signora preparano i bagagli per volare a Milano dai nipotini. “Dopo l’assoluzione ho chiamato la bambina di sette anni che dalla tv ha appreso del processo. Le ho detto che è tutto finito e il nonno non ha più pensieri”. Sul display dello smartphone compaiono 247 chiamate senza risposta. “Proverò a scrivere a tutti ma ora, mi scusi, sono decisamente stanco”.