Claudio Borghi (foto LaPresse)

È possibile, come Claudio Borghi, essere liberisti e anche no?

Carlo Lottieri
Intervistato da Giancarlo Perna per “Libero”, il responsabile economico della Lega Claudio Borghi ha sintetizzato con queste parole le sue tesi in materia economica: “Non c’è un vestito per tutte le stagioni. Con la crescita, sono liberista. Se c’è recessione, keynesiano”.

Intervistato da Giancarlo Perna per “Libero”, il responsabile economico della Lega Claudio Borghi ha sintetizzato con queste parole le sue tesi in materia economica: “Non c’è un vestito per tutte le stagioni. Con la crescita, sono liberista. Se c’è recessione, keynesiano”. La teoria economica, insomma, come un armadio a due ante o una rivisitazione dell’averroismo.

 

D’altra parte, Borghi si è imposto all’attenzione dei media come interprete di un atteggiamento anti-euro sempre più diffuso. Egli contesta la moneta unica non tanto perché premessa a istituzioni politiche centralizzate e a una massiccia redistribuzione (anche per via monetaria), ma invece perché propone il ritorno a una moneta italiana al fine di svalutare e stimolare artificialmente le esportazioni. Essere più poveri per poter vendere meglio, indebolendo la moneta così da aiutare taluni a danno di altri: i risparmiatori, ad esempio.

 

In fondo, i grandi dibattiti teorici sull’economia qui c’entrano poco ed è inutile scomodare keynesiani e monetaristi.

 

D’altro canto, che non si possa essere liberisti nei giorni pari e interventisti in quelli dispari è chiaro, dato che gli uni e gli altri si pongono la stessa domanda (“come si può crescere?”) e giungono a conclusioni contrastanti. Per i primi la libera interazione di mercato è quanto di meno peggio ci si debba augurare (per ragioni di ordine etico e conoscitivo), mentre per i secondi è indispensabile che l’azione pubblica stimoli, corregga, distribuisca, programmi. Per la vulgata keynesiana il risparmiatore è irrazionale in quanto tesaurizza: il rimedio è che tasse, spesa pubblica, bassi tassi d’interesse ed espansione monetaria mettano in circolo le sue risorse a favore della prosperità di (quasi) tutti.

 

Se allora non si può essere talora liberisti e talora keynesiani, certamente si può però essere indifferenti dinanzi all’alternativa: come, appunto, nel caso di Borghi e di altri “pragmatici” discettatori di cose economiche.

 

In una nota storiella un presidente americano, Harry Truman, sperava un giorno di potere avere un consigliere economico “monco” e questo perché era frustrato dal fatto di ricevere continuamente consigli di direzione opposta: sentendosi dire che da un lato – in inglese, “on one hand” – sarebbe bene fare questo, ma dall’altro – “on the other hand” – sarebbe buona cosa invece fare qualcosa di molto diverso. Il Borghi-pensiero forse sarebbe piaciuto al Truman della barzelletta, perché il consigliere di Matteo Salvini ha due mani, ma le lascia libere di muoversi in ogni direzione, avendo la possibilità di optare di volta in volta tra “più Stato” e “meno Stato”.

 

Il senso è chiaro: la teoria economica è inutile e questa tesi è perfettamente funzionale alle esigenze di quanti devono costruire consenso elettorale, mettendo da parte principi morali e teoremi scientifici.

 

Per giunta Borghi non è un economista, come egli stesso ammette con onestà. Esperto finanziario con tanti anni di lavoro in banca, oggi è professore a contratto di Intermediazioni finanziarie alla Cattolica e ama presentarsi come una persona che ha fatto esperienza del mondo reale e che agli studenti trasmette le sue esperienze sul campo. I suoi scritti sono sul mercato dell’arte e certo non sembra avvertire l’esigenza di avere un bagaglio scientifico accademico nutrito di Ricardo, Marshall, Barone, Hayek, Sraffa, Samuelson o Vernon Smith.

 

Ci sta quindi che, qua e là, emergano pure tesi complottiste: come quella secondo cui negli scorsi anni “l’austerità e le tasse sono state imposte per abbattere deliberatamente il mercato interno pareggiando così la bilancia commerciale”. Se la teoria non conta, l’economia è un mero agglomerato di fatti. Alla fine non resta che la storia, come già affermava un precursore del rigetto di ogni teorizzazione, quell’oggi dimenticato Gustav Schmoller che a secondo Ottocento contestò l’esistenza stessa dell’economia quale disciplina e offrì più di una munizione alle ondivaghe politiche dell’Impero guglielmino.

 

Fu proprio celiando con Schmoller, che Vilfredo Pareto sembra avere coniato la formula, poi celebre, secondo cui “nessun pasto è gratis”. Quando Pareto chiese allo studioso tedesco – che negava l’esistenza di leggi economiche – dove vi fosse un ristorante in cui fosse possibile mangiare senza spendere un soldo ed ebbe come risposta che da nessuna parte si può trovare qualcosa di simile, subito colse al palla al balzo e aggiunge: “Ma allora esistono leggi dell’economia!”.

 

[**Video_box_2**]A ben guardare, la teoria è fondamentale e negarlo non aiuta a capire la realtà, anche perché ogni avvenimento è sempre letto diversamente sulla base di distinte griglie concettuali. E non a caso la maggior parte delle soluzioni offerte da chi nega l’utilità di un’economia come scienza sono di taglio interventista. Come quando, solo due anni fa, Borghi disse che con un debito al 200 per cento del pil in Giappone facevano bene a stimolare la crescita con enormi immissioni di denaro da parte della banca centrale. Teoria o no, la terribile recessione che si è avuta in seguito a Tokyo ha presto obbligato Borghi e gli altri a non evocare più quel modello. In fondo, lo stesso Keynes non fu sempre “keynesiano” ma ondivago; e Hayek abbandonò il progetto di confutare la Teoria generale quando si rese conto che il suo bersaglio polemico era del tutto mobile, irresoluto, ondivago.

 

Non è però vero l’opposto, perché non si può essere ogni tanto liberali e ogni tanto no. Il liberale  non è tale senza qualche saldo fondamento, come evidenzia Enrico Colombatto nel suo ultimo volume, ora tradotto anche in italiano. Se lo statalista è spesso un po’ un “pratico” e in qualche modo ostile ai principi e alla scienza, non si può dire lo stesso per il liberale. E forse questo spiega perché Borghi piaccia assai più agli statalisti che ai liberali.

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