La giustizia che “sente le voci”, di un paesino o delle sue paranoie

Guido Vitiello
La giustizia italiana sente le voci. Trattandosi di una paziente notoriamente schizofrenica, la cosa non stupisce più di tanto. Non alludo solo al sintomo clinico più recente, la frase che il medico Tutino potrebbe aver detto o non detto a Crocetta.

La giustizia italiana sente le voci. Trattandosi di una paziente notoriamente schizofrenica, la cosa non stupisce più di tanto. Non alludo solo al sintomo clinico più recente, la frase che il medico Tutino potrebbe aver detto o non detto a Crocetta, e che la procura di Palermo potrebbe aver intercettato o non intercettato: quello è un caso che lascio a Oliver Sacks. No, il ruolo strabordante delle voci, talora delle allucinazioni uditive, è una patologia cronica dell’amministrazione della giustizia, intendendo con questa formula lo strano rituale sociale che si svolge in molti luoghi (la stampa, la tv, i social network, i bar, i retrobottega delle redazioni, i corridoi pieni di spifferi degli uffici giudiziari) e a volte, se avanza tempo, perfino nei tribunali. Sembra di essere intrappolati nella testa di Schreber, il malato di nervi su cui Freud affinò la sua teoria della paranoia, che non per nulla era presidente della Corte d’appello di Dresda. E si sente di tutto, in quella cassa di risonanza infernale, echi e rimbombi, sussurri e grida. I bisbigli senza tregua degli intercettati, amplificati e distorti dall’intonarumori dei media; le interminabili e labirintiche affabulazioni dei pentiti, che si ramificano, si affastellano, si combinano, si disseminano; o anche – nel caso più angosciante di tutti, quello di Contrada – le dicerie di pentiti negromanti che riferiscono le voci accusatorie di mafiosi morti.

 

Il traguardo minaccioso, forse neppure così lontano se il decorso della psicosi seguirà il ritmo attuale, potrebbe essere una giustizia governata unicamente dalle voci, volatili e rapaci, che piomberanno a stormi sull’uno o l’altro imputato. Congettura spaventosa, è vero, ma non del tutto inedita; a cercar bene, gli annali offrono un precedente istruttivo. E’ il “processo per il misterioso assassinio di Carnago”, che si svolse alla Corte d’assise di Como nel 1889 (ne offre un eccellente resoconto Alessandra Fusco nel volume collettivo “Processo penale e opinione pubblica in Italia tra Otto e Novecento”, edito dal Mulino). Un caso di duplice omicidio che vide gli unici sospettati, i coniugi Camuzzi, fatti a brandelli dai pettegolezzi, dalle congetture giornalistiche e da null’altro. Tutta Carnago (e paesi limitrofi) li diceva colpevoli, ed è in nome di questo plebiscito che la giustizia fu amministrata. Le indagini, i rapporti di Pubblica sicurezza, la requisitoria del pubblico ministero, la sentenza di rinvio a giudizio, l’atto d’accusa, tutti si rifacevano esplicitamente alla “pubblica vociferazione” e al “sospetto unanime”. Nella sentenza della sezione d’accusa di Milano, per esempio, si poteva leggere una frase come questa: “Considerato che la predetta pubblica opinione venne avvalorata da molteplici circostanze…”.

 

[**Video_box_2**]Durante il dibattimento a Como il presidente chiese agli imputati: “Come va che l’opinione pubblica vi accusa con tanta insistenza?”; e il pubblico ministero così sollecitava i testimoni: “Potete citare qualche persona conosciuta che creda nell’innocenza dei Camuzzi?”. Errore o non errore, fu un processo di sole voci, che generarono una duplice condanna ai lavori forzati a vita. Ricordatevi del povero fornaretto, certo, ma pure del processo di Carnago.

 

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