Laura non c'è, l'ha suicidata lo Stato

Redazione
Che c’è dietro la soluzione finale belga per una ventiquatrenne depressa

Nessuno può dire con certezza che la morte non sia la cura migliore per guarire la depressione, nemmeno Laura a quanto pare, la ventiquattrenne belga cui lo Stato ha appena accordato l’allestimento di un’eutanasia senz’altro più definitiva che dolce, prevista entro la fine dell’estate. Esiste, lo sappiamo tutti, una zona grigia in cui la scelta individuale diventa ultima istanza a se stessa, è un luogo privatissimo dell’animo e, a cose fatte, della memoria di chi ci ama, un posto immateriale nel quale una ragazzina infelice può credere che il tuffo di Saffo dalla rupe di Leucade sia preferibile a una esistenza anodina e accartocciata nella cenere del desiderio inappagato di normalità.

 

Ci sono innumerevoli ragioni per giustificare il proprio annientamento, ma non ce n’è neppure una sufficiente per delegare il compito allo Stato, peggio che mai in nome d’una malriposta, sterile idealizzazione della morte come pietosa risorsa per medicalizzare un’anima in pena. Di là da ogni considerazione di tipo sanitario – chi può dire a cuore leggero d’aver sperimentato ogni possibilità lenitiva? –, di là da ogni contabilità rintracciabile nelle statistiche di una nazione in cui circa 1.600 persone all’anno ingoiano morte come fosse aspirina (dall’anno scorso anche i bambini terminali), c’è in questa soluzione finale un sottofondo di solerte, odiosa ingegneria suicidaria, una pedagogia tenebrosa e impersonale che sottrae a ogni atto estremo la clemente neutralità del potere pubblico. Laura deve ancora essere suicidata ma già non c’è più, dal momento in cui lo Stato belga non soltanto ha sancito il lancinante suo diritto a farla finita, ma sopra tutto ha rivendicato il proprio compassato dovere a toglierla di mezzo con un tratto di penna.

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