Riccardo Illy (foto LaPresse)

Assalto al lavoro

Francesco Pacifico
Elogio radicale del Jobs Act da Riccardo Illy che (se potesse) raddrizzerebbe altre storture: “L’Italia ha un problema culturale: i genitori e i nonni, invece di preoccuparsi di comprare la macchina ai figli, dovrebbero insegnare loro a mantenersi da soli"

Roma. L’analisi di Riccardo Illy sul perché le aziende guardano con favore al Jobs Act è onesta e brutale: “Perché ci toglie dal pericolo di tenerci fino alla pensione – e con la Fornero parliamo di 65 anni – un dipendente che non lavora”. Presidente e terza generazione di un’azienda che produce caffè dal 1933, renziano ante litteram (come sindaco di Trieste e governatore del Friuli-Venezia Giulia), non è quello che si dice un falco delle relazioni industriali. Eppure, se potesse, cancellerebbe anche “gli scatti di carriera legati al fatto che si è stati trent’anni nella stessa azienda”, le pensioni di reversibilità “concesse anche alle donne che lavorano” o “il Tfr che aveva un senso perché cambiavi lavoro al massimo una volta nella vita”. Lui invece è un fautore della flexicurity, della responsabilizzazione.

 

“L’Italia ha un problema culturale: i genitori e i nonni, invece di preoccuparsi di comprare la macchina ai figli, dovrebbero insegnare loro a mantenersi da soli. Mi raccontava un prete, alla guida di una cooperativa sociale, che molti disoccupati rifiutano un posto quando scoprono che c’è da lavorare qualche sabato o la domenica oppure che le ferie si fanno quando si può”. Illy licenzierebbe i colleghi che “hanno usato la minaccia di licenziamento per pretendere dal lavoratore quello che non è tenuto a fare”. A domande su Confindustria premette che non “sarò io a difenderla. Ricordo soltanto che, come azienda, abbiamo sempre trovato una tiepidissima risposta alle nostre richieste di maggiore impegno sui fronti dell’innovazione e dell’esportazione. Forse perché la cosa è legata anche al progressivo ingresso di aziende dei servizi, che hanno interessi in conflitto con le imprese manifatturiere”. Ma ancora più duro è con il sindacato. “Come si fa ad assumere in un paese, dove accanto alla tutela normativa, c’è un’ultra protezione sindacale? Conosco imprese che hanno visto i giudici costringerle a riassumere dipendenti che durante la malattia facevano paracadutismo. Perché secondo il giudice quell’attività faceva bene alla salute! Se vai in Gran Bretagna, non troverai mai un sindacato disponibile a difendere un loro iscritto così: sono i primi a chiedere di licenziarlo”. Prima del Jobs Act, dice Illy, “avevamo tre gruppi di lavoratori: i datori – lavorano anche loro –, i professionisti e i temporanei che rischiavano il collo e che sono diventati la maggioranza; i lavoratori ultratutelati oltre ogni ragionevole limite dal sindacato”. Cgil, Cisl e Uil dovrebbero occuparsi soltanto “di evitare gli abusi.

 

Invece, siccome in Italia non siamo capaci di prevenire situazioni di abusi, hanno introdotto il posto fisso a vita per legge. Questo è stato l’articolo 18”. Il risultato? “E’ stato devastante. L’articolo 18 ha portato i lavori a tempo indeterminato a diventare una casta”. Illy si vanta di avere fatto il facchino in gioventù per comprarsi la moto, di aver iniziato come “ultimo aiutante di un capoarea”, dopo inverni passati a fare il maestro di sci ed estati come istruttore di vela. Forte di ciò vuole che i suoi figli e i suoi dipendenti riequilibrino il giro d’affari di un gruppo oggi legato sostanzialmente al caffè, ma che in futuro dovrà far remunerare anche le attività nel tè, nella cioccolata e nel vino come lo storico brand. “Il Jobs Act potrebbe aiutare chi come noi non ama assumere precari, perché non ha senso formare chi poi va a lavorare altrove. A noi serve gente con un approccio globale. Il precariato è stato un antidoto alla rigidità, fa solo calare la produttività e aumentare i rischi, come gli incidenti sul lavoro”.

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