Alberto Savinio, "In visita", 1930

Le funeste attualissime previsioni di Savinio sulla terza guerra d'Europa

Matteo Marchesini

Lo scrittore e pittore insiste sul fatto che l’idea di nazione è divenuta ormai funerea, dogmatica e sterilmente familistica: bisogna costruire una nuova casa europea, aperta e liberale.

Anni fa notai che alcuni giornalisti attribuivano a Saviano dei motti di Savinio. Il lapsus, che confonde il “pompiere” dell’engagement col più giocoso demistificatore della retorica, avrebbe forse ispirato al De Chirico junior una mirabile voce enciclopedica sui nostri tempi. Ma oggi, anche chi è ansioso di cavalcare mediaticamente quella Storia che per lui era un archivio d’insanie (“Clio è mitomane”), insomma chi confonde letteratura e “jettatura” pontificando su De Luca o Renzi, Isis o Ucraina, può cedere senza pentimenti al suo umorismo lucianesco, e magari ammettere che l’impegno civile non coincide con l’inamidata serietà di Libertà e Giustizia (serietà necessaria, diceva Savinio, agli uomini che attraverso un virtuistico idealismo creano se stessi, perché senza la sua maschera non esisterebbero). Adelphi ha infatti ripubblicato gli articoli di “Sorte dell’Europa” (1945), scritti dopo il 25 luglio ’43 e dopo la Liberazione di Roma ma ahimè ancora caldi. La riconquistata libertà coincise per Savinio con una vera e propria frenesia creativa. In quei mesi di tragica euforia compose i suoi saggi e racconti maggiori, e volle anche fare conti più diretti con la cosa pubblica, cioè con un fascismo fisiologicamente estraneo alla sua natura, ma tuttavia capace d’indurlo a qualche marginale complicità “900”: e dunque, come suggerisce il rimaneggiamento di certi brani, a un successivo rimorso. Pur irriducibile alla teoria politica o filosofica, “Sorte dell’Europa” evoca le coeve pagine della Weil, della “Dialettica dell’illuminismo” e del Manifesto di Ventotene. Savinio insiste sul fatto che l’idea di nazione è divenuta ormai funerea, dogmatica e sterilmente familistica: bisogna costruire una nuova casa europea, aperta e liberale. Ma il liberalismo, questo “lirismo del dovere” a cui dedica un lungo inno anaforico, non è per lui né un assetto delle istituzioni né una crociana religio: è invece “democrazia mentale”, rifiuto di ogni “credo unico”, utopia di un mondo dove “ogni cittadino è in sé uno Stato”. Savinio propone di superare l’atomizzazione sociale novecentesca accettandola, e sublimandola nel dilettantismo anarchico che identifica tout court con l’Occidente, cioè con uno spazio in cui i dogmi e i bellicosi monoteismi si dissolvono in credenze eclettiche e pacificamente ermafrodite. Solo estendendo questa libertà mentale si eviterà la rinascita di regimi fondati sul culto della Grandezza: culto al quale finora, dice lo scrittore con le stesse parole della Weil, sono stati educati non solo Mussolini e Hitler ma i loro interi popoli.

 

E’ questa “gigantomania” a produrre i “sogni pompieri” che inquinano insieme l’estetica e la politica: perché c’è un rapporto stretto tra D’Annunzio e Mussolini, tra chi vede l’unica arte possibile in Dante, nella Cappella Sistina o nella Nona Sinfonia, e chi vuol rifondare l’Impero Romano nel secolo XX. A Savinio bastano due passi nella Roma occupata per vedere riuniti i segni dei pompierismi storicamente e geograficamente più lontani: l’obelisco egizio, l’acquedotto neroniano, i fasti cattolici, i camion nazisti… La sua prosa è una catena ininterrotta di teorie tascabili, enunciate con un’unilateralità apodittica che parodizza i diktat ideologici moderni, e che viene subito disinnescata da una rapida, divagante ironia. Si veda ad esempio il brano sulla pretesa fascista di creare monumentali organizzazioni di massa. Per mostrarne la vanità, Savinio si limita a ricordare che a differenza di Usa e Urss l’Italia è montuosa, stretta, e quindi sopporta solo organizzazioni “agili e spiritose”: a volte, per evitare le sciagure causate dalla retorica, servirebbe un prosaico “Ministero delle Possibilità”. Ma le righe più sinistramente attuali si trovano in chiusura: “L’Europa (…) vuole formarsi e presto o tardi si formerà. Chissà? Tale è la follia degli uomini e tale la loro stupidità – tale è soprattutto la loro insistenza a non risolversi a quello che il destino prescrive se non (…) presi a pedate dalla più dura e urgente necessità, che forse ci vorrà una terza guerra anche più disastrosa delle due che l’avranno preceduta per chiarire nel cervello degli europei la necessità dell’unione; nel qual caso non più gli europei vivi si uniranno, ma le ombre degli europei, come Omero chiama i fantasmi di coloro che hanno vissuto”. Proviamo dunque a non farci addirittura pestare a sangue, e a non sognare sogni pompieri: né su Putin né sulla Ferrante.

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