Barack Obama (foto LaPresse)

L'islam, i negoziati e altre lezioni per Washington

In termini di puro calore da tifoseria, il Congresso americano riunito in seduta comune ha riservato a Benjamin Netanyahu un’accoglienza paragonabile, se non superiore, a quella che Barack Obama ha ricevuto negli ultimi anni al discorso sullo Stato dell’unione.

New York. In termini di puro calore da tifoseria, il Congresso americano riunito in seduta comune ha riservato a Benjamin Netanyahu un’accoglienza paragonabile, se non superiore, a quella che Barack Obama ha ricevuto negli ultimi anni al discorso sullo Stato dell’unione. Le sedie dei cinquanta e più parlamentari democratici che hanno disertato il controverso discorso – fra questi sei ebrei, forse il dato più significativo del boicottaggio – sono state strategicamente riempite dai repubblicani per evitare il colpo d’occhio da sala mezza vuota, il resto lo hanno fatto la profusione di abbracci di Bibi, le standing ovation commosse, la forsennata corsa ai biglietti, l’esibizione di una figura simbolicamente imponente come Elie Wiesel, corteggiatissimo da Obama, il tono sicuro e financo spavaldo di chi gioca in casa. Del resto, fra i leader stranieri soltanto Winston Churchill ha avuto lo stesso numero di occasioni per arringare il “corpo legislativo più importante del mondo”. Il discorso di Bibi, che qui sopra pubblichiamo integralmente, si rivolge a diversi uditori – innanzitutto l’elettorato israeliano, dal quale il premier spera di ricevere un nuovo mandato – e si muove su vari livelli di lettura, ma il primo destinatario del messaggio è il presidente Barack Obama, che Netanyahu ha tatticamente elogiato per il sostegno fornito a Israele anche in circostanze meno note rispetto a quelle più pubblicizzate dalla Casa Bianca, salvo poi smontare punto per punto la docilità strategica dell’Amministrazione nei confronti dell’Iran. Netanyahu ha ribadito l’opposizione totale e senza sconti a qualunque accordo nucleare con l’Iran, seguendo il principio per cui “no deal is better than a bad deal”. E quello che il segretario di stato, John Kerry, sta negoziando con il regime di Teheran nella logica di Netanyahu è chiaramente un “bad deal”, come qualunque accordo che permetta agli ayatollah di continuare a operare centrifughe e arricchire uranio, seppure per scopo civile.

 

Nella sortita al Congresso, Bibi ha approfittato dell’assenza politica di Obama dallo scenario internazionale per saltare sullo scranno di leader del mondo libero, impegnato a scongiurare una minaccia che non riguarda soltanto Israele ma il mondo intero. Perché, ha ricordato con una punta di malizia, Teheran odia anche l’America, “la cosa non deve sorprendere, perché l’ideologia del regime rivoluzionario dell’Iran è profondamente radicata nell’islam militante”. Islam militante è la categoria che Obama si è sempre rifiutato di accettare, e Bibi ha messo il dito proprio lì, nella radice religiosa e ideologica di un regime analogo a quello dello Stato islamico: “L’Iran e l’Isis competono per la palma dell’islam militante. Uno si proclama Repubblica islamica. L’altro Stato islamico. Entrambi vogliono imporre un impero dell’islam militante prima sulla regione e poi sul mondo intero. Sono in disaccordo soltanto su chi debba comandare questo impero”. Niente di meglio per gettare scompiglio fra i falchi e le colombe del Congresso, divisi in modo trasversale e confuso, ora che anche i liberal più intransigenti (vedi alla voce Susan Rice) sono pronti ad accettare un compromesso nucleare. Nancy Pelosi ha detto che durante il discorso di Netanyahu era sul punto di mettersi a piangere per “l’insulto all’intelligenza degli Stati Uniti”. Costretto sulla difensiva, Obama ha detto che Netanyahu non propone alternative credibili al negoziato nucleare. Un anonimo funzionario dell’Amministrazione ha spiegato che “la logica del discorso del primo ministro è quella del regime change”, cosa che involontariamente legittima il ruolo di Bibi come portavoce delle verità che il leader del mondo libero non è libero di dire.

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