Una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

Relazioni internazionali in cerca di un centro di gravità permanente

Alessandro Corneli

Tutto si tiene o niente si tiene nelle relazioni internazionali? La globalizzazione aveva dato l’impressione che tutto si tenesse nel “mercato”, fondamento del  “nuovo ordine mondiale”.

Tutto si tiene o niente si tiene nelle relazioni internazionali? La globalizzazione aveva dato l’impressione che tutto si tenesse nel “mercato”, fondamento del  “nuovo ordine mondiale”, all’insegna del principio “meno stato, più mercato” perché gli stati si fanno la guerra mentre nei mercati si fanno affari. Titolari della sovranità divennero i consumatori, spodestando i cittadini, perché i primi camminano agitando banconote e bancomat mentre i secondi  marciano in uniforme dietro le bandiere e imbracciano i fucili. Non c’è voluto molto perché subentrasse un “nuovo disordine mondiale”, alimentato da due fonti per natura divergenti. La prima, i Brics, stati emergenti come Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica che hanno sconvolto la mappa delle gerarchia economica tra i paesi; la seconda, i movimenti armati transnazionali e senza una propria base territoriale vera e stabile, da al Qaida allo Stato islamico e ai “signori della guerra” degli stati falliti, dalla Somalia alla Libia, passando per i teatri iracheno, afghano, siriano, nigeriano.

 

Focolai indipendenti o comunicanti per vie sotterranee? A un primo sguardo, quelle situazioni che definiamo con la parola “crisi” si evolvono in modo indipendente:  l’Ucraina, la Grecia, la Siria, la Libia, lo Stato islamico o Boko Haram sembrano coinvolgere protagonisti diversi con finalità diverse che giocano su tavoli diversi. L’Onu, l’Osce, la Nato e varie “coalizioni di volonterosi” si affacciano qua e là più per cercare di capire che per intervenire in modo risolutivo.

 

Siamo lontani dal modello della Santa alleanza, costruito nel 1815 dopo gli sconquassi delle guerre napoleoniche, in base al quale gli stati conservatori si impegnavano a intervenire per spegnere i focolai rivoluzionari dovunque fossero scoppiati. Questo “ordine” mondiale, occasionalmente violato, saltò nel 1914 con la Grande guerra. Dopo il Secondo conflitto mondiale, si impose il modello bipolare, gestito da Stati Uniti e Unione sovietica fino al 1989-1991. La regola era semplice: se una superpotenza era direttamente impegnata in un conflitto (per l’Unione sovietica, in Ungheria o Cecoslovacchia; per gli Stati Uniti, in Corea o in Vietnam), l’altra si teneva alla larga per evitare incidenti che sarebbero potuti sfuggire di mano. Prima ancora che finisse la Guerra fredda, le cose avevano iniziato a cambiare: seppure indirettamente, gli Stati Uniti si esposero molto a fianco degli afghani che combattevano contro le truppe sovietiche. Ora, se istruttori americani si recheranno in Ucraina, la distanza con le forze russe si ridurrà parecchio.

 

Dopo la fine della Guerra fredda, è venuto il momento delle “alleanze di scopo” (o dei volonterosi): dall’Afghanistan all’Iraq e alla Libia, ma in Siria il modello non ha funzionato e la situazione negli altri tre paesi è ancora instabile. Le nuove minacce transnazionali, senza o con scarsa presenza sul territorio, come al Qaida o lo Stato islamico, non hanno ancora trovato una risposta che assomigli a un modello, né interpretativo né operativo. I vari G5, G6, G7, G8, G10 e G20 hanno affrontato tematiche parziali: un po’ più efficaci dell’Onu ma meno rappresentativi. D’altronde i club dei ricchi non sono popolari.

 

Poi ci sono “ordini” allo stato nascente, che magari farebbero comodo se esistessero, ma che per il momento sono poco più che indiziari, come quello attribuito alla Russia di Vladimir Putin, o al solo Putin, o come quello della Cina. La Federal reserve americana, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale affrontano, con ricette e risultati diversi, la recessione economica, ma i loro modelli sono emergenziali.

 

[**Video_box_2**]Non difettano modelli alternativi come lo “scontro di civiltà”, che poi diventa scontro tra religioni ed etnie, o come quello, più limitato, tra sciiti e sunniti. E poi c’è sempre l’usato sicuro, la Nato. A condizione che la Russia stia al gioco. Per finire, il futuribile: il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), l’accordo di libero scambio in fieri tra Unione europea e Stati Uniti, con il simmetrico Trattato transpacifico (Ttp) tra Stati Uniti e paesi del Pacifico. La scelta è ampia e ogni soluzione ha i suoi sostenitori. Il presidente americano, Barack Obama, dovrebbe dire qualcosa, ma ormai le sue decisioni risentono dell’imminente campagna per le presidenziali del 2016, e perciò sono tattiche. Peccato che Henry Kissinger non possa essere richiamato in servizio.

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