Operai in una fabbrica della Volkswagen in Germania

Origini e conseguenze della riscossa salariale in Germania

Alessandro Alviani

Più soldi in busta paga ai metalmeccanici: una primavera per l’Europa in deflazione? Girotondo di economisti.

Berlino. Quattordici anni. Tanto c’è voluto affinché in Germania i salari reali tornassero al livello del 2000. A certificarlo è l’istituto economico Wsi, legato alla Hans-Böckler-Stiftung, la fondazione della confederazione sindacale Dgb: nel 2014 i salari reali hanno superato per la prima volta il livello di inizio millennio, fermandosi a più 1,4 per cento. Nel 2009 era stato toccato un record negativo: meno 4,3 per cento dal 2000. A sostenere l’incremento sono stati in particolare i salari dei lavoratori con un contratto collettivo, cresciuti del 10,9 per cento nel giro di quattordici anni. Una tendenza confermata ieri dall’Ufficio tedesco di statistica, secondo il quale l’anno scorso le retribuzioni dei 19 milioni di lavoratori tedeschi con contratto collettivo sono salite del 3,2 per cento su base annua (includendo i pagamenti una tantum). Si tratta dell’incremento più marcato dall’inizio delle rilevazioni, nel 2010. Nello stesso periodo i prezzi al consumo sono saliti dello 0,9 per cento. Il tutto mentre l’aumento dei salari, il calo dei prezzi del petrolio e i bassi tassi di interesse, che scoraggiano il risparmio, rilanciano la domanda interna: i consumi privati sono aumentati nell’ultimo trimestre del 2014 dello 0,8 per cento; secondo l’istituto Gfk, la propensione al consumo è ai massimi dall’ottobre 2001.

 

Per l’esperto del Wsi Reinhard Bispinck, ci sono ancora forti margini di incremento sul fronte salariale. Il recente accordo in Baden-Württemberg tra sindacati e datori di lavoro del settore metalmeccanico, che prevede un aumento del 3,4 per cento, sembra dargli ragione. Quell’intesa non può essere estesa all’intera economia, mette in guardia invece il presidente dell’associazione dei datori di lavoro (Bda), Ingo Kramer, che teme un allargamento dell’accordo agli altri settori in cui sono in corso trattative salariali, cioè nell’industria chimica e nel pubblico impiego. Segno che, a cinque anni di distanza dalle critiche di Christine Lagarde che sul Financial Times sollecitò la Germania a stimolare la sua domanda interna per aiutare i paesi in difficoltà a recuperare competitività, in quanto il suo modello economico, basato su bassi costi del lavoro, potrebbe non essere sostenibile per gli altri paesi dell’Eurozona, i temi sollevati dall’allora ministro francese delle Finanze continuano a dividere il mondo economico tedesco.

 

L’incremento dei salari che Berlino sta registrando “è di gran lunga insufficiente”, dice al Foglio l’economista Heiner Flassbeck, Segretario di stato al ministero delle Finanze con Oskar Lafontaine tra 1998 e 1999 e in seguito capoeconomista della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) tra 2003 e 2012. Flassbeck ha da poco pubblicato un libro col professore greco di economia Costas Lapavitsas. Titolo: “Solo la Germania può salvare l’euro”. Berlino, dice l’economista, “potrebbe salvare l’Eurozona se i salari aumentassero in modo più sostenuto”, tuttavia non c’è una maggioranza in tal senso. “In Germania i salari dovrebbero salire del 5-6 per cento ogni anno per dieci anni”, nota. Se si va avanti al ritmo attuale, invece, ci vorranno venti o trent’anni affinché paesi come l’Italia o la Francia possano recuperare lo svantaggio di competitività rispetto a Berlino. La Germania, cioè, “dovrebbe perdere competitività affinché gli altri possano guadagnarla: quello che Merkel non capisce è che la competitività è un concetto relativo, non tutti possono aumentarla contemporaneamente, la si può migliorare solo nei confronti di qualcuno”.

 

Flassbeck accusa la Germania di “dumping salariale” e vede nella politica della moderazione salariale decisa a cavallo del nuovo millennio la causa della crisi dell’Eurozona. Berlino, argomenta, si è guadagnata un vantaggio competitivo con mezzi sleali: su pressione della politica i salari sono cresciuti meno di quanto necessario per attenersi all’obiettivo di un’inflazione intorno al 2 per cento. Berlino “vive a spese dei suoi vicini”, accusa. “La Germania vive al di sotto delle sue possibilità. Perché ciò sia possibile c’è bisogno di qualcuno che viva al di sopra dei suoi mezzi, solo che nel dibattito tedesco non lo dice nessuno. Qui si ripete sempre: noi facciamo tutto in maniera corretta, gli altri sbagliano tutto”.

 

[**Video_box_2**]In questo Flassbeck, che definisce “catastrofico” l’andamento dei salari negli ultimi anni, vede il difetto principale del modello economico tedesco, a sua detta “insensato”: “Il modello tedesco è molto semplice: la Germania risparmia e tutti gli altri si indebitano. Se provassero a farlo tutti non funzionerebbe. È un’assurdità credere che sia possibile. Si risparmia solo se qualcun altro si indebita”. Altrettanto “assurdo è che si stia tentando di esportare un modello non esportabile”.

 

Su posizioni opposte rispetto a quelle di Flassbeck si colloca il professor Michael Grömling, responsabile del gruppo di ricerca sull’andamento congiunturale presso l’istituto economico Iw, vicino ai datori di lavoro. Se i salari aumentassero a ritmi ancora più sostenuti “faremmo gli stessi errori compiuti da molti paesi europei in passato, cioè ridurremmo la nostra competitività”, dice al Foglio. “Quei paesi hanno grossi problemi di competitività anche perché hanno esagerato sul fronte dell’andamento dei salari”, aggiunge Grömling, che guarda con occhio critico agli ultimi accordi salariali in Germania, che a sua detta vanno al di là di quello che sarebbe giustificato sul fronte della produttività. Il professor Stefan Kooths, direttore del Centro stime congiunturali dell’istituto economico Ifw di Kiel, respinge l’idea che la Germania abbia portato avanti una politica di dumping salariale nel primo decennio della moneta comune. Avevamo una situazione di disoccupazione relativamente elevata, ricorda, per ridurla c’è bisogno che i salari crescano meno di quanto consentito dalla produttività, mentre ora che ci muoviamo in direzione della piena occupazione i salari possono crescere in modo più netto. L’argomento del dumping salariale non è comprensibile, nota Kooths: “Altri paesi potrebbero fare la stessa politica e avere lo stesso successo della Germania: il successo sul piano dell’occupazione non dipende dal surplus delle esportazioni”.

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