Se solo avessero saputo prima della motosega, gli avulsi non farebbero tante storie adesso. C’è di peggio o no?

Semifiction

La palla e la bestia

Alessandro Giuli

Dai lanzichenecchi di Rotterdam ai teppisti italiani, l’educazione sentimentale all’ultra(s)violenza negli stadi di calcio raccontata da uno che c’era (e non c’era) - di Alessandro Giuli

Alla fine, oltre alla qualificazione, la sola vendetta che i romanisti si sono presi è stata lasciare Rotterdam così come l’hanno trovata. E’ rimasto deluso chi s’aspettava che un manipolo di eroi scemi andasse in Olanda per riparare l’onore della Barcaccia con lame e mazze. Come insegnano i veterani, se hai fatto brutta figura in casa, fuori casa rischi solo di fare peggio: ti pesteranno le guardie straniere e le risate del nemico-spettatore saranno il colpo di grazia alla tua credibilità. In certi casi, gli ultras aspettano con pazienza di poter regolare i conti in campo neutro, fosse pure una discoteca estiva. Insomma col Feyenoord è finita bene, ma non è finita. Perché la palla e la bestia non si separano mai, il calcio e l’ultraviolenza sono i due volti di un’educazione sentimentale che può cominciare in tenerissima età e che merita d’essere raccontata. Da chi c’era (e non c’era), come in una fiction autentica.

 

Mio fratello avvocato dice che anni fa se la sono vista brutta contro una prima fila di romanisti armata fino ai denti e guidata da uno con la motosega tra le mani. La polizia immobile, i giornalisti muti forse per scelta questurina: fra i laziali ci furono parecchi sbudellati, molto cuoio capelluto sanguinolento strappato a colpi di bastone; fra i giallorossi, i vincitori, una milza da buttare. Era un derby del Duemilacinque o giù di lì, di quelli che ormai seguivo disintossicato sull’internet, giusto per sapere il risultato del campo, disinteressato a quello degli spalti. Mio fratello stava con quelli della Nord e non è uno imparziale, cioè si vanta ancora molto delle rare (lui dice innumerevoli) occasioni in cui dalla Farnesina hanno respinto il gruppaccio romanista fino alla così detta Palla (altezza distinti sud dell’Olimpico). Insomma, come si dice, è fededegno. All’epoca i laziali avevano introdotto l’usanza di annodare coltelli lunghissimi ai manici di piccone, con effetti oplitici assai premianti. La risposta giallorossa fu allora la motosega. Poi per fortuna, tra repressione e ricambio generazionale, si sono tutti un po’ placati. Ma che follia, eh.
Come può accadere tutto questo?, si chiedono ancora gli avulsi di fronte alle immagini dei barbari venuti a Roma da Rotterdam per addentare la Barcaccia e accamparsi ubriachi nelle vie del centro. (Non pervenuti gli ultras della Roma). Se solo avessero saputo prima della motosega, gli avulsi non farebbero tante storie adesso. C’è di peggio o no?

 



Non basta il tifo nella tua vita.
nella tua squadra hai fede infinita.
In settimana fai gli striscioni
e poi domenica inneggi ai campioni.
Ragazzo ultrà!
Ragazzo ultrà!

(Statuto, “Ragazzo ultrà”)

 



L’educazione sentimentale al mondo ultras può avvenire in tenerissima età, quando capisci che non puoi più entrare in curva mano nella mano con tuo padre. Arriva il momento di mentire ai genitori, inventarsi (o reclutare) amici invisibili maggiorenni spacciati per ghandiani, promettere prudenza e nascondere con cura le prime sigarette. Tra la metà degli anni Ottanta e la fine dei Novanta si poteva entrare nel vecchio Olimpico scavalcando in mattinata; oppure un minuto prima del fischio d’inizio, partecipando a quella enorme onda d’urto dei senza-biglietto accalcati sui cancelli d’ingresso privi di tornelli. C’era sempre lo sfortunato che pagava con un manganello tatuato sulla schiena, e c’era il più sfortunato che finiva bevuto (ma rilasciato quasi subito). La maggioranza la sfangava e non aveva problemi di posto perché i posti non erano numerati. La Sud era psicoticamente divisa in due Commando ultrà curva sud a causa dell’affaire Manfredonia, il primo calciatore laziale comprato dalla Roma in tempi nei quali l’operazione aveva dei costi aggiuntivi altissimi: la rivolta dei tifosi, una parte dei quali (Vecchio Cucs) si rassegnò presto all’empio acquisto, l’altra parte no (Commando Ultrà e GaM, che sta per Gruppo anti Manfredonia), la totalità si scannò sull’argomento in una famigerata partita di Coppa Italia con il Genoa (un accoltellato fra i pro Manfredonia, perché a Roma la lama è una specie di apostrofo rosso tra le parole “t’ammazzo”, con spesso in aggiunta “bastardo”).

 

Insomma un bel clima. Fra gli altri gruppi storici, i Boys di destra-destra e i Fedayn del Quadraro, dunque origine sinistrissima ma non più esibita. Dopo aver accostato anti e pro Manfredonia, scampato a stento alle prime rapine dei cani sciolti (sciarpa e cappello le refurtive preferite, il portafogli in caso di grave debolezza della vittima solitaria), il contatto del giovanissimo tifoso con i Fedayn fu divertente e fugace. “Vie’ qua da noi ché siamo gli unici seri”. Quindi il coro: “Se non hai / se non hai / se non hai l’eroina / vieni qui / vieni qui / te la danno i Fedayn”. Non giurerei che fossero coristi ufficiali del gruppo, ma insomma. (A proposito di Fedayn. Come noto, il loro striscione è impreziosito dal volto velato della signora morte. Roba forte. E noi molti anni dopo, nel nuovo gruppaccio, avremmo contato anche un ragazzo tanto caro ed erudito ma con una faccia così piatta piatta e butterata da soprannominarlo “Lo striscione dei Fedayn”. Sicché spesso si sentiva dire: “Oggi Lo striscione dei Fedayn è in ritardo” oppure “che ne pensa Lo striscione dei Fedayn?”).

 



Nella tua curva passi le ore,
gridi gli slogan ricco d’onore.
I poliziotti ti dan la caccia,
è già famosa ormai la tua faccia.
Ragazzo ultrà!
Ragazzo ultrà!

(Statuto, “Ragazzo ultrà”)

 



Si comincia così, poi ci si stabilisce in un settore preciso della curva e infine si entra nel branco. Di regola si viene presentati da qualcuno, come per partecipare al Premio Strega, tipo un tutor. Nel mio caso fu il Melanzana, smilzo pregiudicato di Tor Bella Monaca, almeno dieci anni più grande di me, fervido organizzatore del così detto “comitato d’accoglienza” per i tifosi ospiti non benvenuti a Roma. Il primo scontro – rito d’iniziazione – delude spesso e ricalca le risse sui muretti di quartiere: si è quasi sempre in superiorità numerica, l’avversario fugge dopo i colpi iniziali; oppure è poco più che una danza fugace interrotta dalle guardie. L’emozione vera arriva con la prima trasferta, rito di passaggio obbligato. Si viaggiava per lo più nei “treni speciali”, convogli fuori corso che le Ferrovie dello Stato destinavano al randagismo vandalico dei tifosi, ma che avevano l’inconveniente d’essere facilmente aggredibili a ogni stazione dalle forze dell’ordine. (Indimenticabile fu poi un viaggio diurno fino a Milano per una serale con l’Inter: otto ore dentro il vagone postale di un treno merci, sparpagliati fra sacchi di presumibile iuta pieni di lettere, guardati a vista da tre celerini terrorizzati non da noi ma dagli occupanti del vagone successivo, rigonfio di napoletani drogatissimi che andavano in trasferta a Cremona: “Alla prima cazzata apriamo le porte e vi consegniamo ai napoletani”). Sicché i gruppi più furbi e facoltosi ricorrono al pullman.

 

Si ricorse ai pullman per la finale di Coppa Italia del 1991, gara di ritorno a Genova con la Samp. Due pullman per il gruppaccio più un altro pullman per un gruppaccio minore aggiunto. Di quella partita ricordo con nettezza la gioia della vittoria. Del prepartita poco, la confusione dei fumogeni lanciati dalla polizia, transenne e doriani scaraventati qui e là. Il viaggio di ritorno merita d’essere ricordato soltanto perché uno dei pullman si è cappottato finendo in una scarpata: colpo di sonno dell’autista (corcato subito per punizione). Risultato: un ferito grave fra i passeggeri, 150 persone in una piazzola e soltanto 100 posti disponibili nei due mezzi  a disposizione. Che si fa? Idea: 50 volontari che si lascino accompagnare alla stazione ferroviaria più vicina da uno dei pullman che poi tornerà indietro per portare a Roma con il suo gemello i 100 ultras rimasti. Ingenuo, non avevo riflettuto sul fatto che i 50 volontari sbucati alla spicciolata erano i più brutti e grossi e cattivi della compagnia. Li pensavo generosi. Invece, appena saliti a bordo, hanno messo un coltello alla gola dell’autista e sono andati a Roma. Noi tornammo a casa il giorno dopo, quando la polizia capì che non era conveniente lasciare in circolazione per le piazzole autostradali, per più di dodici ore, 100 romanisti stanchi e nervosi. Inconvenienti delle iniziazioni.

 



Un nuovo nome ti hanno già dato,
pazzo teppista emarginato.
I giornalisti voglion spiegare,
solo chi è un ultras ti può capire.
Ragazzo ultrà!
Ragazzo ultrà!

(Statuto, “Ragazzo ultrà”)


E poi come prosegue la storia? Non è proprio una storia, questa, ma ogni ultras avrebbe la sua storia da raccontare e in fondo si somigliano tutte. I gruppacci vanno e vengono, il Melanzana prima si dà al porno semi amatoriale – “vieni tre volte al giorno e ti pagano pure!” – poi finisce in galera per una truffa aggravata (l’ho rivisto da poco, un filo ingrassato, nel corso di un occasionale fronteggiamento per il derby, sono passati vent’anni e lui è tornato da una breve latitanza nel nord Europa, ora non lo cercano più, ha una fidanzata e sull’avambraccio destro un tatuaggio a colori – i colori: porpora e oro – che ricorda gli anni delle follie), i grandi della banda bevuti per le rapine in banca, le prime leggi speciali che già preludono alla tessera del tifoso e all’asfissia di un mondo infangato ma vivo. Rimane giusto qualche esile aneddoto e forse ripetitivo, possibilmente non troppo cruento:

 

- la volta che, solo, ebbi davvero paura perché i tifosi del Norimberga sul lato ovest dello Stadio Flaminio erano tanti, ululanti e ubriachi;

 

- la volta che ci si era accordati con i laziali (tantissime volte) per prendere le guardie in mezzo ai rispettivi gruppacci, ma poi da qui partimmo in due e da lì in cinquanta (sono ancora nascosto in mezzo a quella siepe, non mi troverete mai);

 

- la volta che dopo Lazio-Napoli si andò insieme con i laziali a salutare i napoletani, e con i napoletani non si scherza mai, ma dopo aver sbaragliato il loro pulmino la polizia ci venne a cercare fin dentro i tombini (sono ancora nascosto in questo elegante garage, non mi troverete mai. Anzi no, ’sta cazzo di vecchietta strilla “chi èèèè?”… arrivano… ecco fatto: “Fermi lì! Documenti!”. “Sì, certo, ma guardi che non sono un teppista laziale, ho fatto il liceo classico, studio filosofia all’università, passeggiavo qui per caso e poi mi sono nascosto per la paura delle botte… ah! Guardi qui, ho anche un portachiavi della Roma!”. “Hmm… circolare!”. Fiuu).

 

- la volta che vidi tornare i miei ragazzi da un tafferuglio alla Stazione Tiburtina, davano il benvenuto ai granata prima della finale di Coppa Italia, uno di loro aveva in mano la visiera del casco d’un vigile urbano ed esultava considerandolo un risarcimento adeguato per tutte quelle multe che gravavano sul suo motorino mai assicurato (la maggior parte delle aggressioni alla Polizia municipale intorno agli stadi va letta come una vendetta fiscale del cittadino, spesso smisurata, ed è una fortuna, per loro, che gli ausiliari del traffico mai appaiano in occasione di una partita);

 

- la volta che in una tranquillissima trasferta a Parma, quasi una scampagnata, figurai come l’unico romanista oggetto di violenze perché venni travolto in un sudatissimo intreccio di carni da un tossico nudo e schiumoso che aveva azzardato una fuga scattante mentre i Carabinieri lo ammanettavano;

 

- la volta che in trasferta a Milano i milanisti ci filarono dalla metro a piazzale Lotto, ma poi ci mescolammo alle loro prime file che davano l’assalto alle guardie per raggiungere i romanisti, e come per magia attraversammo il cordone dei celerini riunendoci ai nostri per divertirci di nuovo tutti insieme (a fine partita, noi circondati da quelli delle Brigate rossonere, le guardie ebbero la geniale idea di radunarci davanti al bar dov’erano parcheggiati tutti i motorini dei ragazzi delle Brigate, il che rese comprensibilmente più animosa, se non legittima perfino, la loro carica disperata al pensiero di quanto costino i carrozzieri a Milano);

 

- la volta che di ritorno da Neuchâtel per una vana e piovosissima trasferta di Coppa Uefa (sei treni diversi per arrivarci) ci eravamo imbucati nel pullman di un Roma club e il mio amico Ale ha passato la notte a cantare nell’orecchio dell’autista assonnatissimo, memore di quella scarpata al ritorno da Genova eccetera.

 

- la volta che osammo troppo e scoppiò una guerra civile in Sud perché fra noi c’era un amico laziale famoso soprannominato il Torcia che infatti tirò una torcia fumogena in campo e fu riconosciuto da tutta la curva. E giù botte. La volta che… la volta che… la volta che…



Non essere gelosa se allo stadio voglio andar.
Non essere furiosa se io vado a caricar.
Perché, ye ye
perché, ye ye
perché, quest’è la mia passione
il lancio
il lancio del mattone

(La Sud sulle note di Rita Pavone)


Dice: ma allora tu sei davvero uno culturalmente violento! Ma questa è una fiction verosimile o un raccontino autobiografico parecchio romanzato. Non viviamo in un libro di Irvine Welsh, non è scontato il lieto fine borghese con villetta a schiera. Sopra tutto, non c’è una morale. C’era, forse, un tempo, la così detta “etica ultras”, il leggendario fair play di bergamaschi e veronesi che ti affrontano (quasi) sempre a mani nude, il rispetto comune per i morti nostri e altrui, i gemellaggi internazionali (le ultime due cose forse ci sono ancora, mentre scrivo indosso una t-shirt degli ultras del Panathinaikos stanziati a Naxos con i quali mi sono gemellato un’estate fa: “Ma mi raccomando, romano, non indossarla quando sbarchi al Pireo se no quelli dell’Olympiakos ti gettano in mare).

 

[**Video_box_2**]Un tempo avrei scritto, forse l’ho già scritto e mi sto ripetendo, che una società senescente non può diabolizzare la violenza esiliando i riti giovanili di passaggio, altrimenti si ritroverà gli stadi pieni di ragazzini grandi e piccoli (a volte si resta ragazzini fin dopo i quarant’anni) alle prese con l’unica cosa ritenuta etologicamente necessaria: intrupparsi intorno a una sfera di autoidentificazione, difendere il proprio territorio, attaccare quello degli altri, selezionare i capibranco e associare loro i gregari, insomma giocare a fare i maschi come in ogni civiltà o inciviltà. Ma quali sono i riti giovanili di passaggio? C’è un bel libro dal titolo oggi un po’ beffardo, “La juventus attraverso i secoli” (Bocca), pubblicato nel 1953 dallo studioso Giuseppe Cesare Pola Falletti. La Juve rubascudetti non c’entra nulla, il saggio indaga le forme nelle quali l’Europa, dall’antichità all’età moderna, ha cercato di ritualizzare le componenti essenziali delle classi d’età adolescenziali. Dai Luperci romani alle Männerbünde (società di uomini) germaniche, “la parte avuta dai gruppi giovanili attraverso i secoli, nella vita, in particolare nelle ricorrenze civili e religiose delle collettività presso cui fiorirono, costituisce uno dei più ricchi ed interessanti capitoli della storia del costume e del folklore” (magari prima o poi ci scriviamo su una pagina seria, non fictional). Abolito il folklore, Marte non abita più lì, dove germogliano spirali incandescenti. E incontrollate. Chiudeteli pure gli stadi, i giovani balleranno nelle piazze finché la Playstation non avrà finito di rincoglionirli.


Lo sai perché tutta la mia vita è giallorossa,
c’è una ragione,
ho la Roma nel mio cuore,
ASRoma, io non vivo senza te.

(La Sud sulle note di Loretta Goggi)


Ma sul serio posso cavarmela così? Non ho ancora scritto la parola calcio e già sono pronto per il Daspo, eppure il mio non è un omaggio inconscio allo slogan “più calci meno calcio” degli anni folli. Esiste fin troppa letteratura sul mondo degli ultras, sociologia non ne parliamo. Non c’era ragione di aggiungere morchia a morchia. Alla fine della fiera la penserei come il capitano, come Francesco Totti: meglio sospendere dal campionato le squadre infestate dai tifosi violenti. Anzi meglio fare come in Grecia, sospendere proprio il campionato di calcio quando i tifosi oltrepassano il limite. Ma allora – insisto – perché non fare una cosa più genuinamente italiana, abolire direttamente il campionato? Le curve ultras troveranno il loro sfogo in altri sport (o nelle piazze, come dicevamo prima) o meglio ancora sbarcheranno armi e bagagli su Twitter e nei videogiochi, e allora il non-luogo dei cinguettii diventerà il palcoscenico per una grande rappresentazione d’innocua violenza. Saranno, saremo tutti impegnati in un agone virtuale, ci insulteremo con gioiosa ferocia, ci urleremo non più solo #smammatroll ma #smammalaziale o #smammaromanista e insomma potremmo dirci certe cose da fare accapponare la pelle, cose efferatissime, fuorilegge ma dentro il nulla. Dice: ciao rottame analogico, guarda che avviene già, a stadi e campionati ancora aperti. Ma allora!, di che vi allarmate, è solo questione di tempo e tutto si pacificherà in un tuìt.

Di più su questi argomenti: