La carica dei mille. Sergio Marchionne, amministratore delegato della FCA, allo stabilimento Sata di Melfi nel 2012

La fabbrica della rivoluzione

Luciano Capone

Nuovo modello. Viaggio nello stabilimento Fiat di Melfi, dove si torna ad assumere passando per l’America

Alle 9 e trenta del mattino sono una cinquantina le persone davanti ai cancelli dello stabilimento Fiat a San Nicola di Melfi. Non è uno sciopero né una manifestazione sindacale, di quelle che ci hanno abituato a vedere questi anni di recessione, chiusure e ristrutturazioni in particolare nel settore dell’auto, ma sono i ragazzi in fila per le visite mediche, uno degli ultimi passi prima dell’assunzione. Hanno tutti tra i venti e trent’anni. C’è chi finge sicurezza fumando una sigaretta, chi cammina avanti e indietro e chi scambia qualche parola con gli altri, qualcuno che viene da più lontano si è fatto accompagnare dai genitori. Un po’ spaesati e un po’ impauriti, l’atmosfera è a metà tra la visita militare e l’esame di maturità, si sentono la tensione e l’ansia per vedere a portata di mano un posto di lavoro stabile in una zona che come la gran parte del sud Italia non offre molte possibilità. Dopo l’annuncio a inizio anno di Sergio Marchionne di un piano di assunzioni di mille giovani, a cui si aggiungeranno altri 500 lavoratori trasferiti da altri stabilimenti come Pomigliano e Cassino, sono piovute in pochi giorni 38 mila candidature da tutta l’Italia meridionale, dal foggiano, dall’Irpinia, dalla Calabria, molte richieste sono di ragazzi che sperano di tornare a casa dal nord Italia o dall’estero. L’investimento di circa un miliardo della Fiat per lanciare due nuovi modelli, la Jeep Renegade e la 500X, segna un’inversione di tendenza importante per il mezzogiorno che negli ultimi anni ha vissuto una progressiva desertificazione industriale, soprattutto nell’automotive con la chiusura di Termini Imerese, dell’Irisbus di Flumeri (che ripartirà quest’anno con il nome Industria Italiana Autobus e la nuova proprietà cinese), esuberi e cassa integrazione in tutti gli altri stabilimenti.

 

Il forte valore simbolico delle nuove assunzioni di Melfi non è sfuggito al presidente del Consiglio Matteo Renzi che oggi, dopo il funerale ad Alba di un’icona del capitalismo buono italiano come Michele Ferrero, sarà a Torino per incontrare proprio il presidente e l’amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles (FCA), John Elkann e Sergio Marchionne, e visitare a Mirafiori l’allestimento della nuova linea di produzione della Maserati Levante, un altro pezzo importante della strategia di conquista del mercato estero di Marchionne. Renzi ha annunciato che poi farà tappa anche a Melfi per il suo tour nelle fabbriche italiane che stanno ripartendo. Melfi sarà il palco ideale per dire che anche il sud #cambiaverso, che anche la Fca ha fatto #lasvoltabuona, che l’Italia riparte anche grazie alle riforme del governo sul lavoro. D’altronde l’assist al governo per rivendicare il legame tra il Jobs Act e le nuove assunzioni è arrivato proprio da Marchionne che ha esplicitamente detto che senza il Jobs act i nuovi assunti avrebbero avuto contratti interinali. In realtà i primi 300 ragazzi che da poco hanno iniziato a lavorare a Melfi sono stati inseriti proprio con contratti interinali per 6 mesi, ma in attesa che vengano emanati i decreti attuativi del Jobs Act che permettano di poter passare al contratto a tutele crescenti, quello senza l’articolo 18 contro cui si sono strenuamente battuti Susanna Camusso (segretario generale della Cgil) e Maurizio Landini (Fiom-Cgil).

 

Ma al di là dei meriti che può intestarsi il governo, il vincitore della scommessa su Melfi è Sergio Marchionne. Quando il manager col pullover è diventato amministratore delegato della Fiat nel 2004, la situazione a Melfi era incandescente, lo stabilimento era stato bloccato per oltre due settimane dagli scioperi e dai picchetti della Fiom, allora guidata da Gianni Rinaldini, ci furono gli scontri con le forze dell’ordine intervenute per rimuovere i blocchi dei lavoratori e dei sindacalisti che impedivano l’entrata. “Il clima era teso – racconta un dipendente – Quando si rientrò a lavorare molti evitavano di incrociare lo sguardo, poi le cose si sono risolte piano piano”. Ma più degli scontri con i sindacati sulle condizioni contrattuali il problema di Melfi era di prospettiva, visto che lo stabilimento si stava avvicinando alla grande crisi producendo quasi esclusivamente la Punto, una vettura destinata al mercato interno. Con il crollo del mercato dell’auto ai minimi storici degli ultimi quarant’anni, lo stabilimento sembrava destinato a ridimensionarsi se non avesse trovato uno sbocco all’estero. E’ vero che c’erano le promesse di Marchionne di nuovi modelli e nuovi investimenti, ma erano in pochi a crederci: “Più che altro ci speravamo – dice un operaio – Qui le macchine le abbiamo sempre fatte bene, però eravamo in cassa integrazione e in questi anni ci sono state solo notizie di licenziamenti e chiusure. La paura che non si sarebbero fatti gli investimenti c’era”. Ed è stata la paura cavalcata a lungo dalla Fiom che ha ingaggiato con Marchionne uno scontro frontale sui nuovi contratti aziendali e quindi fuori dalla cornice della solita concertazione nazionale, sulla rappresentanza sindacale e sulla famosa riduzione delle tre pause dai complessivi 40 minuti a 30 minuti, una questione che era diventata un diritto fondamentale, una conquista inalienabile dei lavoratori e che ora appare un ricordo di preistoria sindacale. La linea dura di Landini è stata bocciata con i referendum dai lavoratori, ma comunque era in grado di raccogliere consensi che andavano dal quasi 40 per cento di Pomigliano al quasi 50 per cento di Mirafiori. “Non accettiamo i ricatti di Marchionne”, “non svendiamo i diritti fondamentali dei lavoratori”, “la Fiat va male perché non fa investimenti e nuovi modelli”, “Marchionne sta spostando gli interessi verso l’America”.

 

E invece senza la strategia americana – senza la sponda con il presidente americano Barack Obama (e anche i suoi soldi pubblici, certo), oltre che con lavoratori e sindacalisti d’Oltreoceano – sarebbe stato praticamente impossibile pensare non solo di aumentare l’occupazione, ma persino riassorbire tutta la forza lavoro che per due anni a Melfi è stata in cassa integrazione. Più che spacchettare la Fiat e portarsela negli Stati Uniti, Marchionne ha portato per ora un po’ di America in Basilicata. Le Renegade fatte a Melfi sono le prime Jeep fabbricate fuori dai confini statunitensi: “Per noi è un orgoglio fare le Jeep per gli americani – dice un operaio – E’ una sfida molto grande che non possiamo sbagliare, ma ce la faremo”. La produzione dei due nuovi modelli sarà destinata quasi integralmente al mercato estero, il 90 per cento delle Jeep e il 70 per cento delle 500X verranno vendute fuori dall’Italia. E quest’atmosfera più internazionale si respira nello stabilimento, ci sono manifesti che dicono che New York, Mosca, New Delhi, Londra sono vicine a Melfi, c’è una “sala Jeep” con i cartelli che evocano le caratteristiche e lo spirito del marchio americano, si fanno incontri in fabbrica con personaggi come Beppe Severgnini per spiegare come sono fatti gli americani. Prima di partire gli operai hanno fatto “team building” (si usano spesso parole inglesi per entrare in una mentalità internazionale, anche se spesso fa un po’ Nando Moriconi, un americano a Melfi), si sono incontrati per una settimana per conoscersi meglio, fare squadra e hanno appeso dei cartelloni che sintetizzassero la nuova sfida, anche qui c’è molta America, tanto Obama e “Yes we can”.

 

Senza la fusione con Detroit sarebbe stato inimmaginabile andare a vendere auto negli Stati Uniti, non c’era una rete di vendita e di assistenza e soprattutto c’era una pessima reputazione, per anni in America Fiat è stato l’acronimo di “Fix it again, Tony” (aggiustala di nuovo, Tony). Ora le cose sembrano in via di cambiamento. Un po’ conteranno pure le campagne pubblicitarie smart e accattivanti, come lo spot sulla 500X al Viagra andato in onda durante la finale del Super Bowl, l’evento sportivo e televisivo dell’anno da 110 milioni di telespettatori, e autoironiche, come quella in cui il meccanico italo-americano Tony aggiusta una vecchia auto americana trasformandola in una 500X. Soprattutto però nei prossimi mesi Fca tenterà anche di lanciare oltreoceano il marchio Alfa Romeo, che in America ha vissuto anni gloriosi prima di cadere in disgrazia e sparire dalla circolazione. “L’Italia aveva delle soluzioni molto limitate per quanto riguarda la crisi dell’auto – ha detto Marchionne a metà gennaio, quando ha annunciato le nuove assunzioni di Melfi – Abbiamo avuto il coraggio, l’intelligenza e la perspicacia di andare al di fuori e trovarci questa realtà americana, e cominciare a lavorare con i nostri colleghi qua per creare un mondo diverso. Una scommessa che a quei tempi sembrava azzardata e che è diventata una realtà veramente solida”. Insomma, al contrario di ciò che molti pensavano, è stata l’America a salvare l’Italia e i suoi posti di lavoro.

 

[**Video_box_2**]Attualmente la fabbrica lavora su tre turni al giorno, 15 turni settimanali, produce circa 1.000 vetture al giorno, ma l’obiettivo è quello di arrivare a 18-19 turni settimanali per stare dietro alle richieste del mercato visto che per adesso i segnali sono positivi. Tra l’altro con l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro che dovrebbe spingere le esportazioni e il crollo del prezzo del petrolio che dovrebbe spingere gli americani a comprare macchine che consumano, c’è una coincidenza astrale favorevole per le macchine che si producono a Melfi. Del successo dei modelli di Melfi se ne potranno giovare anche altri stabilimenti del sud Italia come la Fma di Pratola Serra, vicino Avellino, dove si producono alcuni motori diesel per la Jeep e la 500X, i motori a benzina vengono dall’America e altri dal Brasile.

 

Uno scenario molto diverso da quello apocalittico di disoccupazione e sfruttamento dipinto fino a poco tempo fa da Maurizio Landini e non soltanto da lui. I dati in generale sono positivi, dopo anni di magra il mercato europeo e quello italiano sono in crescita, con le vendite di gennaio in aumento del 6,7 per cento a livello continentale e del 10,9 per cento a livello nazionale rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. E anche il gruppo Fca fa segnare numeri positivi. In questo periodo c’è un picco di richieste per la Panda e a Pomigliano l’azienda ha chiesto ai dipendenti di fare gli straordinari il sabato. Per tutta risposta la Fiom ha proclamato uno sciopero per tre sabati consecutivi per chiedere la fine della cassa integrazione, ma le adesioni sono state solo 5 su 1.478, lo 0,33 per cento. Un fallimento clamoroso che arriva pochi giorni dopo il flop dello sciopero indetto sempre dalla Fiom di Landini e sempre per gli stessi motivi alla Vm di Cento, una fabbrica del gruppo Fca che fa motori: anche nella rossa Emilia le adesioni sono state bassissime, una ventina di lavoratori, circa il 7 per cento, in uno stabilimento dove gli iscritti alla Fiom sono il 20 per cento del totale. Sono lontani i tempi in cui il segretario generale Landini arringava le masse operaie dicendo: “Siamo pronti ad occupare le fabbriche”.

 

A Melfi non sono arrivati gli occupanti, ma i nuovi occupati. Non solo sono rientrati a lavoro tutti quelli che prima erano in cassa integrazione, ma con le nuove assunzioni lo stabilimento raggiungerà il picco storico di dipendenti, a pieno regime l’organico supererà le 7 mila persone e arriverà a quota 10 mila se si considera l’indotto diretto che lavora in maniera integrata con lo stabilimento. Con la nuova linea produttiva, i nuovi modelli e i neoassunti, la fabbrica sta vivendo una trasformazione profondissima. Si tratta della prima grande infornata di nuovi dipendenti dopo la prima generazione entrata all’inizio degli anni 90, si abbasserà l’età media dei dipendenti che attualmente è di 44 anni e cambierà anche la composizione dell’organico che è prevalentemente composto da persone che hanno come titolo di studio la licenza media o il diploma. I nuovi operai sono tutti diplomati e tra i primi 300 ci sono anche 40 laureati: “Un po’ mi fa impressione che io che sono geometra devo insegnare le cose a lui che è un ingegnere” dice un “team leader”, un responsabile di un’unità di 6 operai. Antonio è un ingegnere gestionale di 25 anni, è in Fca da un mesetto, è tornato in Basilicata da Firenze dove lavorava nella grande distribuzione: “Avevo un contratto a tempo indeterminato – dice – ma quando ho saputo che potevo venire qui mi sono dimesso. ‘Ma sei sicuro?’ mi hanno detto”. Appunto, sei sicuro di aver fatto la cosa giusta nel lasciare un lavoro sicuro? “Tanto il lavoro sicuro non esiste più, che te ne fai dell’indeterminato se l’azienda chiude? Grazie a questa possibilità  potevo tornare a casa e lavorare in un settore che mi piace, dove posso imparare tante cose. Per ora sono sei mesi, poi si vedrà”. Gianni invece è un ingegnere ambientale di 26 anni, viveva a Bordeaux dove lavorava nel settore vitivinicolo: “Sono legato alla mia terra e così sono potuto tornare, per fare un lavoro che mi piace. Alcuni si vergognerebbero di fare l’operaio, pensano che sia un lavoro sporco, grasso, olio e quelle cose lì, ma le cose sono così”. Certo, ma non è proprio la cosa per cui avete studiato. Ve lo sareste mai immaginato quando avete iniziato l’università che avreste fatto questo lavoro? “Si fa il lavoro che trovi – dice Antonio – questa è una grande azienda e io prima devo imparare tante cose”. Ingegneri-operai che fanno le Jeep in Basilicata, non l’avrebbe immaginato nessuno. Forse solo Marchionne.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali