Le Popolari sulle barricate anti Renzi. Ma di “autoriforme” son piene le fosse

Redazione

Autoriforma? Sì, ma non basta. Per bloccare la decisione di Matteo Renzi di trasformare le banche popolari in società per azioni secondo logica di mercato, gli interessati, cioè i vertici degli istituti, sono pronti a ricorrere alla Corte costituzionale.

Roma. Autoriforma? Sì, ma non basta. Per bloccare la decisione di Matteo Renzi di trasformare le banche popolari in società per azioni secondo logica di mercato, gli interessati, cioè i vertici degli istituti, sono pronti a ricorrere alla Corte costituzionale. Contestando sia la via del decreto scelta da Renzi – sul quale il premier si è detto pronto a mettere la fiducia – sia il contenuto. E’ quanto discusso nella riunione, ieri a Milano, dell’Assopopolari, l’organismo di categoria. Una reazione, al di là della compattezza formale, che sarebbe sostenuta soprattutto dalle big quotate in Borsa – Ubi, Banco popolare, Popolare di Milano, Popolare dell’Emilia Romagna, Credito Valtellinese, Popolare di Sondrio, Popolare dell’Etruria – cioè sette delle dieci con attivi superiori agli otto miliardi interessate dal decreto. Le altre tre interessate al decreto ma non quotate – Veneto banca, Popolare di Vicenza e Popolare di Bari – preferirebbero una linea morbida, ma sempre asserragliandosi nella trincea dell’autoriforma. E tutte puntando sulla trasversale rete di amicizie nei partiti, dalla Lega al Pd, da Sel a Forza Italia passando per il centro alfaniano.

 

Il decreto Renzi, inserito nell’Investment compact, prevede per queste dieci banche la cancellazione del voto capitario, un’anomalia più volte contestata dalla Banca d’Italia e oggi soprattutto da fondi e aziende straniere che minacciano di investire altrove. Anomalia per la quale ogni socio esprime un voto, indipendentemente dalle azioni, quindi dalla quota di capitale posseduta. La trasformazione in Spa renderebbe le banche contendibili, cancellerebbe la pratica dei soci trasportati alle assemblee a migliaia con i pullman nei palasport; soprattutto minerebbe il potere perpetuo dei notabili locali, tutte cose incompatibili con il mercato e anche con la capitalizzazione. “Bisogna togliere le banche di mano ai signorotti locali” insiste Renzi, strigliando poi la Consob perché indaghi su chi, in anticipo sul decreto, ha comprato a mani basse titoli delle quotate (sospetti su Londra). Nel governo il primo lord difensore delle Popolari è Maurizio Lupi dell’Ncd. Ma insorgono anche Matteo Salvini della Lega, contro l’“attacco al territorio”, Stefano Fassina (sinistra pd), Francesco Boccia (lettiano), nonché Susanna Camusso (Cgil) che ha sparato sul decreto al recente sciopero dei bancari. A una sterilizzazione della riforma, magari da trasformare in autoriforma, sembrano puntare i capigruppo delle commissioni Attività produttive e Finanze della Camera, Guglielmo Epifani (Pd) e Daniele Capezzone (Fi). E all’“autoriforma” apre la porta anche il relatore Marco Causi, sempre del Pd, veltroniano. Renzi oltre al sostegno di Bankitalia e degli investitori esteri, ha anche il supporto di un banchiere non vicino al governo come Giovanni Bazoli (“definirlo un attacco al modello popolare e al territorio è un errore madornale; il decreto si applica a istituti i quali, loro sì, a quel modello non corrispondono più”, nota il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo), e di economisti dal palato difficile come Salvatore Bragantini e Luigi Guiso, professore all’Einaudi Institute di Roma. Il premier, poi, ha dato 18 mesi per aggiornare gli statuti: non certo un blitz visto che è dal 2006 che la Banca d’Italia sollecita la riforma.

 

[**Video_box_2**]Via Nazionale si fa forte dei dati: le Popolari sono 385, rispetto a 183 banche Spa, ma erogano solo il 15 per cento del credito. E ora ecco lo specchietto dell’autoriforma. Affidata dall’Assopopolari all’inevitabile commissione di saggi composta da Piergaetano Marchetti, Alberto Quadrio Curzio e Angelo Tantazzi, tre pezzi grossi della finanza. Peccato che il termine stesso evochi sinistri scenari di insabbiamento: solo negli ultimi mesi sono arrivate le farlocche promesse autoriformatrici del Cnel e delle Camere di commercio, del Coni e degli ordini professionali, della Rai e dei consiglieri regionali. Senza trascurare la Pubblica amministrazione e le rappresentanze sindacali. Fino all’autoriforma più disattesa di tutte: quella della magistratura.

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