Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Riforme bancarie

Il governo scuote la foresta pietrificata delle popolari

Alberto Brambilla

Un decreto choc per rendere le banche locali contendibili. Era ora. Il presidente del Consiglio ha deciso di riformare l’assetto delle banche popolari, obbligando le più grandi a trasformarsi in società per azioni.

Roma. In opposizione agli interessi politici avvinghiati al sistema del credito locale, con un decreto approvato dal Consiglio dei ministri di ieri il governo di Matteo Renzi ha deciso di riformare l’assetto delle banche popolari, obbligando le più grandi a trasformarsi in società per azioni: ovvero a diventare contendibili sul mercato. Il provvedimento – dopo le dimissioni del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano – ha preso forma in tempi rapidi. Nelle case di brokeraggio si dubitava della sua esistenza già lunedì, all’indomani dei primi annunci del premier. D’altronde, di una riforma simile si discute dal 1987, ma non si è mai concluso nulla a causa dell’opposizione dei potentati locali che insistono sui territori di residenza degli istituti, i principali al nord. Il presidente del Consiglio in conferenza stampa l’ha definito un risultato “storico”.

 

Cosa cambia? Stando all’articolo 1 del decreto, saranno almeno dieci le banche popolari di consistenti dimensioni – ovvero con attivi sopra gli otto miliardi – che nei prossimi diciotto mesi dovranno dire addio al sistema di voto capitario per cui il voto di ciascun socio-dipendente della banca ha lo stesso identico valore, a prescindere dalle quote azionarie possedute. Un sistema – spesso fatto passare come la quintessenza della democrazia creditizia – che in realtà conferiva a un’equivoca massa di centinaia di soci il potere di veto sulle decisioni importanti degli istituti.

 

Le banche di credito cooperativo non saranno toccate: “Non si tratta di danneggiare la storia dei piccoli istituti – ha detto Renzi – ma di fare in modo che le banche italiane siano all’altezza delle sfide. Abbiamo troppi banchieri e facciamo troppo poco credito”. Le banche popolari hanno infatti un tasso di redditività inferiore alla media europea del settore e una governance pletorica, unita all’eccesso di sportelli bancari, contribuisce a aumentare i costi e ridurre i profitti. Ciò espone a possibili choc un sistema bancario già sovradimensionato. Delle 680 banche sul territorio nazionale, la stragrande maggioranza è composta da popolari e cooperative. L’Italia ha più sportelli bancari che farmacie, dice l’Ocse.

 

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La Banca d’Italia, da tempo promotrice del cambiamento, ha fatto da suggeritore. La scelta è stata chirurgica, “qualitativa”, ha detto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, e “preserva in alcuni casi una forma di governance che ha servito bene il paese”. Un modo per zittire i nostalgici dell’ultima ora del sistema mutualistico che tanto preoccupa i leghisti del Veneto, ansiosi per le sorti delle banche di casa come la Popolare di Vicenza e Veneto Banca (entrambe non quotate in Borsa).

 

Gli altri istituti interessati sono Banco Popolare, Banca popolare di Milano, Bper, Popolare di Sondrio, Credito Valtellinese, Banca Etruria e la bresciana Ubi. La portata della decisione va oltre i singoli casi e dà la spinta a un consolidamento del sistema bancario da tempo sollecitato dalle organizzazioni internazionali e dalla Banca centrale europea. (La Spagna, con la spinta di Bruxelles e degli aiuti comunitari, ha già portato le casse locali, le cajas, da 45 a 15). In molti si chiedono fino a dove vuole arrivare Renzi e assumono consistenza rumors maliziosi, rilanciati dall’agenzia Reuters, sulla possibile fusione tra Ubi, un feudo dei Bazoli, e il Monte dei Paschi di Siena in cerca di un partner. Ci voleva dunque una riforma drastica (e sorprendente) delle banche locali per sistemare la banca (toscana) dei localismi per eccellenza?

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.