Paul Labile Pogba è nato nel 1993 in Francia, da genitori originari della Guinea. Dal 2012 gioca nella Juventus

Il campione fluido

Beppe Di Corrado

Forza, classe, tocco (e le telefonate alla mamma): ritratto di Pogba, la meraviglia proficua. Ovvero, il calciatore da 90 milioni di euro.

Pogba è fluido. Per il fisico, per la tranquillità, per la certezza di essere forte. Calcia senza ansia, gioca senza paura. Sciolto, Paul. Il gol al Napoli, con la palla che scende, lui la guarda, la segue, la capisce, la sente. La coordinazione è un movimento che non fa strappi, uniforme, pulita, è una linea immaginaria che non ha sbavature. Tiro al volo, gol. La banalità dell’essere straordinario è il primo punto di forza, supera il fisico, la determinazione, la voglia, la capacità, la tecnica. Si può avere talento senza essere naturali. Pogba veste su misura entrambe le cose. Quanto vale? Settanta milioni, dicono. Novanta, s’è letto in questi giorni. La Juve lo venderà? E’ la domanda più scontata e però giusta possibile. La risposta è sconosciuta al momento e si tuffa in un’altra domanda, che poi in realtà è il dilemma più frequente della storia del pallone: di fronte a un’offerta enorme si deve vendere? Qui il non tifoso vince facile. Risponde “sì”, perché il mercato offre possibilità uniche e la storia è piena di squadre che con una cessione hanno costruito molte delle loro vittorie successive. Ma si capisce che il tifoso sia scettico. Perché se hai Pogba non lo vuoi dare a nessuno. Hai allevato un talento fuori dalla norma, ti godi un giocatore giovane e pronto, fortissimo già ora e però con ancora possibilità di migliorare. Il tifoso non lo venderebbe, ovvio. Senza saperlo baratta l’ipotesi di costruire una squadra vincente, con la certezza di avere un campione che però da solo non ti potrà far vincere ciò che lo stesso tifoso sogna.

 

Succede e si capisce. Cioè lo capisce chiunque tifi. Il che comunque non risponde alla domanda iniziale: la Juventus lo venderà? Qui la risposta è una tripla al totocalcio che accompagnerà questa stagione. Perché Pogba è il centro di molte cose, fuori e dentro al campo. E’ uno schiaffo ai detrattori a prescindere del nostro pallone. E’ vero: l’Italia è rinculata, ha meno soldi di altri paesi, ha club meno organizzati, ha stadi mediocri, ma sappiamo ancora fare qualcosa. Pogba è credere in qualcuno a prescindere dall’età. Era un altro luogo comune del nostro calcio: non sa scegliere i ragazzi, compra soltanto campioni affermati e quindi costosi. Dicono sia stato quello il motivo del disastro finanziario del nostro pallone. Comunque Paul è stato preso a zero euro a 19 anni. Antonio Conte gli disse: “Con me gioca il migliore, l’età non conta. Se pensi di poterti imporre qui da noi allora vieni e mostraci quello che sai fare”.

 

Quello che sa fare l’abbiamo visto anche noi. La corsa, la testa alta, la forza fisica, la classe, il tocco. Tutto ciò in cui aveva creduto solo fino a un certo punto Alex Ferguson. Perché lo sanno tutti, ma forse bisogna investire comunque un po’ di tempo su questa parte della sua vita, che poi è anche la prima parte della sua carriera. Cioè: l’allenatore più importante degli ultimi 15 anni del calcio europeo lo scelse per portarlo dal Le Havre, dove giocava, al Manchester United. Per un qualunque ragazzo degli anni Novanta, il ManU è il calcio, forse più di qualunque altra squadra. Un fascino meritato e causato dalla creazione dei Fergie Boys (Giggs, Beckham, Scholes, Neville) e dall’aver fatto conoscere al mondo l’esistenza di una meraviglia pallonara come Cristiano Ronaldo. Ecco: Pogba era finito dove qualunque ragazzo degli anni Novanta con il sogno del calciatore voleva essere. L’ha lasciato, perché a dispetto di ciò che pensiamo noi, oltre il nostro tafazzismo pallonaro, esistono anche gli errori dei grandi. Banalmente: non l’avevano capito. Quanto meno non l’avevano capito fino in fondo. Perché Paul da Manchester, nel 2011 se ne è andato da svincolato. A France Football ha raccontato: “Quando ho detto a Ferguson che avrei lasciato il Manchester United, lui si è messo a gridare. Ha detto che in Italia c’era molto razzismo e che i tifosi non erano come in Premier. Gli ho risposto che non c’era problema. Così sono finito ai margini. E i compagni mi hanno soprannominato Nelson Mandela, perché mi ero opposto a Ferguson. Ma in caso potrei dire no pure a Obama. Che senso ha restare al Manchester soltanto per dire ‘Io gioco al Manchester’ ma poi trovarsi sempre in panchina? Il fatto è che Ferguson non ha mai dimostrato di volermi davvero in squadra. Ha detto delle cose molto belle su di me, sul mio potenziale. Parole al vento, se non ho la possibilità di mettermi in mostra”.

 

Sull’arrivo in Italia si raccontano anche altre versioni, una di queste dice che il suo procuratore Mino Raiola abbia fatto di tutto per non lasciarlo a Manchester e soprattutto per portarlo proprio alla Juve per egoismo: aveva bisogno di una carta per accreditarsi con il club bianconero dopo qualche incomprensione del passato. E’ il complottismo applicato al pallone, lo si prende per quello che è, ovvero una teoria indimostrabile quindi buona per chi ha voglia di crederle. Resta che a prescindere dal tifo non esiste un solo appassionato di pallone che non capisca di avere di fronte un fenomeno. Perché fa cose speciali spacciandole per normali e cose normali con un’aura di specialità. La forza è nella giocata non fine a se stessa. Cioè: io faccio quel tocco complicato, perché solo quello, mi dà nel minor tempo possibile l’opportunità di farne un’altra successiva. C’è un esempio che vale per tutti. In Juventus-Inter di qualche settimana fa. Al minuto 34 e 50, Paul difende una palla a circa 25 metri dalla porta dell’Inter. La sta perdendo, ma usa il corpo, le braccia e tutto il resto per piegarsi e proteggerla, è sua, fa un tocco, vede Ranocchia che sta andando a chiuderlo frontale e s’accorge che dalla sua sinistra sta arrivando anche Juan Jesus. E’ il momento: esterno destro-interno destro e li supera tutti e due. L’elastico alla Ronaldinho, ma incredibilmente più elegante. Più utile, perché è l’unico modo che hai per arrivare lì, cioè dentro l’area, da solo con la possibilità di calciare. Sì, poi sbaglia il tiro Paul. Ma il tema è un altro: l’utilitarismo della bellezza.

 

La meraviglia proficua è la differenza di tutto. E’ Pogba. La sua specificità, la sua diversità. Non è solo forte, non fa solo cose speciali: le fa perché servono. Quando non servono usa i poteri normali. Non è natura, quanto meno non solo. E’ allenamento, è miglioramento, è lavoro. Paul dice cose così: “Credo che la differenza fra un campione e un giocatore forte stia nel cercare quotidianamente la via per essere migliori degli altri”. In un’intervista a Federico Sarica per Icon è un concetto che ha ripetuto diverse volte. Una specie di ritornello che lo accompagna, che lui ha scelto per dare la dimensione di ciò che desidera. “La perfezione non esiste, ma è quello a cui devi tendere se vuoi diventare un numero uno. Lavorare, ricercarla ogni giorno. A cosa aspiro in futuro? A migliorarmi. In tutto. Se uno come Cristiano Ronaldo quest’anno ha vinto il Pallone d’oro è perché è completo: fisico, tecnica, tattica, fondamentali, testa”.

 

Moderno, Pogba. Di più: contemporaneo. E’ il dato più importante, forse quello che lo distingue più di ogni altro. Lo è per caratteristiche fisiche: nella storia del calcio non ci sono altri centrocampisti universali alti un metro e 88, ma allo stesso tempo veloci, allo stesso tempo tecnici. E’ genetica e progresso. E’ evoluzione di un gioco che è cambiato perché con quel fisico Paul negli anni 80 o 90 avrebbe fatto il centravanti, il centrale difensivo o semmai il mediano alla Desailly. Ma ha anche i piedi, ha il tocco, ha la testa, ha l’intuito. E’ un atleta. E’ un simbolo. Prendi lui e capisci che cosa sia diventato il pallone adesso: più fisico e più tecnico, a dispetto delle leggende metropolitane sulla fine del talento. La realtà è che il talento è aumentato perché oltre a quello di nascita è arrivato quello coltivato. Possibile? Sì. Da una media più alta si emerge solo se sei di più. Pogba lo è, anche qui per natura, per talento, per impegno.

 

[**Video_box_2**]E’ nato da un padre che avrebbe voluto farlo, il calciatore. “Io e i miei fratelli dobbiamo a lui la spinta verso il pallone. Sono cresciuto guardando videocassette: non solo Pelé e Maradona, ma anche Papin. Volevo avere la sua forza, la sua aggressività. Gioco bene anche a ping-pong, difficile che in ritiro con la Francia qualcuno mi batta, anche se Lloris, Clichy e Gignac sono al mio livello. I miei si sono separati. Sono rimasto con mamma. Dal Roissy-en-Brie sono passato al Torcy e poi a Le Havre. Sono andato via di casa presto. Ma ero contento e non mi sono trovato male. Sono stato solo, ma non ho sofferto di solitudine. Alla sera chiamavo casa e i miei fratelli, io ci parlo con la mia famiglia, non sono di quelli che fanno i duri. E nemmeno di quelli che si fanno i tatuaggi”. Anche questa storia della famiglia ricorre spesso. Pogba la ripete come se fosse la certificazione della diversità dallo stereotipo del giovane calciatore un po’ bastardo. “Ogni sera chiamo mia madre”, dice a ogni intervista. C’è che all’inizio, in Italia, l’avevano raccontato come ribelle. Perché parlava troppo in campo, perché protestava, perché s’era fatto espellere due volte nel giro di poche partite. E’ finita presto la ribellione, non la fama. Allora spiega Paul: sono tranquillo, voglio allenarmi, voglio vincere, voglio diventare il migliore. Il limite della frase fatta non si supera spesso con lui. E’ come se se lo sia autoimposto: parlo con il pilota automatico perché non è questo il mio obiettivo. Alla regola si sfugge solo quando si torna su Ferguson, altra domanda fissa in ogni intervista, alla quale però Paul risponde senza scegliere uno standard. Più duro più morbido, a seconda del contesto, probabilmente a seconda del momento: “Se ti allena Alex Ferguson, unico nel sentire i giocatori, nel capire quello che ancora non sanno di essere. Ferguson vedeva in profondità, intuiva negli altri progressioni e sviluppi che ancora non c’erano. In tanti gli devono il successo, lui ha creduto in anticipo, anche in me, anche se giocavo poco. Sull’Italia lui mi disse: troppo razzismo, ti troverai male. Io dissento. Anche perché lì avevo avuto molte difficoltà ad ambientarmi con l’inglese che non conoscevo. Sei mesi di pratica infernale, se non sai la lingua e la devi imparare non è che in Gran Bretagna siano molto simpatici. Quanto al razzismo gli risposi che quello c’è dappertutto, nessuno ne è immune. Tanto meno l’Inghilterra. Come hanno dimostrato John Terry e Luis Suárez che ha urlato per sette volte negro a Evra. Anche i nostri tifosi non capiscono che quando insultano un avversario per il colore della pelle fanno male anche a me. E’ un gioco, non la tombola del disprezzo. I tifosi devono capire che un calciatore ha diritto a vivere la vita con il suo stile. Guadagniamo soldi, non li rubiamo. Se voglio comprarmi una bella macchina sono affari miei, nessuno me lo può rinfacciare o giudicare il mio profitto sportivo da quello. Io sono uno che deve ancora arrivare in cima, ma sono consapevole che la fama può darti alla testa, ti senti onnipotente, e cadere dall’alto fa molto male, perché non sei più abituato a stare a terra. In un certo senso ho smentito Ferguson. Il calcio italiano è molto tattico, rispetto a quello inglese che è molto fisico, o a quello francese, molto tecnico. Ma in questo momento è sottovalutato. Qui c’è molta pressione, apprensione, nervosismo, ossessione. E in campo ci sono marcature strettissime, che sì, soffro. In più si parla di un gesto o di un fatto per tutta la settimana, mai una volta che puoi tirare un sospiro di sollievo. Ma è proprio questa eccessiva attenzione a rendere il calcio italiano diverso, difficile. E alla fine anche straordinario”.

 

Pogba lo alimenta. E’ della Juve e senza volerlo è di molti altri. Non è buonismo, né al contrario, appropriazione indebita. E’ una risorsa collettiva, calcisticamente e televisivamente. Universale per posizionamento e per posizione in campo. Le cose non coincidono sempre. Coincidono in lui. Anche questo appartiene alla sua contemporaneità. Dove gioca? Il ruolo, sì. E’ una questione che perde la sua importanza in relazione alla sua capacità di stare sempre bene nello spazio che deve occupare. Nella Juventus ha fatto l’interno, il regista, l’esterno, il trequartista. Qual è il suo? “Tutti”. Anomalo per catalogazione e per capacità di giocare a pallone. Perché poi alla fine è la sua cifra: è un calciatore. Inteso nella sua definizione più larga, dilatata, piena possibile. Lui fa. Un tocco, due tocchi, una finta o un elastico per superare due avversari. E’ una scelta che ha a che fare con il saper giocare a calcio oggi, nel 2015, per poter diventare il migliore. Colpisce tutti quando fa una cosa come quella di Napoli. E’ giusto, è ovvio. Ci sono molti gol così tra quelli fatti nelle ultime due stagioni: un altro al Napoli, l’anno scorso; due contro l’Udinese, uno contro la Sampdoria. Ma non è quello, Pogba. E’ uno stop al volo di una palla che sta andando in fallo laterale. E’ un passaggio di 30 metri a un compagno che dalla tv non riesci neanche a vedere, è un inserimento senza palla per metterla dentro a mezzo metro dalla porta. E’ la funzione trova la soluzione migliore nel minor tempo possibile. In qualunque parte del campo, in qualunque momento della partita. Questo dice chi è e che cosa può diventare. In Italia o in qualsiasi altro posto.

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