Walter Veltroni (foto LaPresse)

L'Africa di Veltroni al Quirinale

Marianna Rizzini

Fantasioso, cauto, sognatore e pragmatico, amico e officiante dei vip, imprenditore nomade della bella politica, protoRenzi e protoNazareno. Promise di dedicarsi ai poveri, uscì dal coro, ora è un presidenziabile.

Roma. L’hanno fatto uscire dal cappello come il Cesarone della lista-presidenziabili, Walter Veltroni, ex sindaco di Roma e primo segretario del Pd: Cesarone stracittadino ma anche internazionale (ed ecumenico, cinefilo, musicofilo, con trascorsi da autore di bestseller invisi ai frequentatori di Twitter, ieri sollevati all’idea di averlo al Colle, “così almeno non scriverà più romanzi”). Non chiamatelo “piccolo Cesare”, aveva ammonito invece su Repubblica, forse profetico, il giornalista e ora eurodeputato della lista Tsipras Curzio Maltese. Era il 28 giugno del 2007 e Walter Veltroni, in ritardo sui Kennedy (camicia botton down quarant’anni dopo) ma in anticipo su Matteo Renzi (il Pd di W. non avrà definitivo slancio), aveva appena pronunciato il famoso discorso del Lingotto, quello che pareva aver lanciato il “partito nuovo” nell’Empireo (poi ci si accontentò di un loft in via dei Cerchi). Era il 28 giugno del 2007 e Luca Cordero di Montezemolo, non ancora sul punto dell’eterna non-discesa in campo, si spingeva a dire, davanti a una pletora di industriali friulani perplessi, che si poteva ben aprire “una nuova stagione”, con quel Veltroni, mentre l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi vedeva, dopo il Lingotto, la fine del “bipolarismo muscolare”. “Basta vecchi in politica”, aveva detto Ciampi a Massimo Giannini su Repubblica, pensando a quel politico ex Pci poco più che cinquantenne (vai a pensare che il futuro avrebbe incoronato non lui ma l’altro: l’ex democristiano non ancora quarantenne).

 

Gli scommettitori esteri l’hanno messo in cima alla lista dei quirinabili, il Veltroni che si era auto-rottamato a “Che tempo che fa”, nel salotto tv di Fabio Fazio, nel 2012, (“non mi ricandido per il Parlamento”), dopo che Renzi aveva detto il contrario di quello che oggi dice il web (“meglio se si dedica ai suoi libri”). Ma chissà che cosa pensano i cittadini romani, ora, dell’idea di vedere al Quirinale l’ex sindaco delle notti bianche e del magniloquente progetto chiamato, nel 2006, “Festa del Cinema di Roma”, poi afflosciatosi tra le volte a tartaruga dell’Auditorium di Renzo Piano, luogo di musica e degustazioni (porchetta o vini) nonché di presentazione-libri. Un luogo che, nelle intenzioni, doveva essere terreno di incontro tra attori, produttori, armatori di navi da crociera (come sponsor) e registi che sognavano una Grande Cinecittà rediviva: sogno ricorrente delle élite cinematografare romane, subito infrantosi agli occhi dell’allora presidente della giuria Ettora Scola, incaricato di selezionare la giuria popolare della “festa” da una lista di 3.500 aspiranti giurati, sospettati di volere autografi più che puro abbeveramento cinematografico.

 

Eppure, in queste ore di stralunata suggestione quirinalizia, ogni scetticismo deve vedersela con la voce postuma di Giulio Andreotti, che nel Veltroni “panem et circenses” vedeva doti camaleontiche non comuni: un giorno l’aveva incontrato all’inaugurazione di un santuario accanto all’allora Segretario di stato vaticano, cardinale Angelo Sodano: “Veltroni sembrava il Segretario di stato e Sodano il sindaco di Roma”, aveva detto Andreotti a questo giornale. Soprattutto, Veltroni è uno che il discorso di Capodanno, dovesse essere, ce l’ha già pronto, e non solo perché si è a lungo esercitato con le sue “Lezioni di politica”, orazioni con cui si candidava a un futuro da Barack Obama prima della vittoria di Obama: Veltroni parlava – sempre all’Auditorium – di Africa, Piccolo principe, America e Enrico Berlinguer, il Berlinguer poi oggetto del documentario che ha fatto piangere Massimo D’Alema (non più quirinabile) e accorrere al solito Auditorium, l’anno scorso, i reduci della Prima e della Seconda Repubblica e i nuovi venuti della Terza. “Walter che meraviglia”, “Walter che commozione”, dicevano gli astanti, ed era, quasi quasi, la prova generale della festa nei giardini del Quirinale che mai nessun presidente potrà più fare, causa spending review. E se il Walter pre-Lingotto si è fatto le ossa con discorsi da sempre paragonati al “Penso positivo” di Jovanotti (“da Che Guevara a Madre Teresa”), il Walter post sconfitta alle politiche del 2008 ha potuto annoverare un’orazione triste (al momento delle dimissioni da segretario pd, febbraio 2009, tutta un “mi scuso” e un “me ne vado”) e un’orazione da Cassandra (estate del 2010, lettera aperta sul Corriere della Sera. Titolo: “Scrivo al mio paese e vi dico cosa farei”. Svolgimento: “Rischiamo una monarchia livida”).

 

[**Video_box_2**]In quella lettera un Veltroni padre della patria in pectore inorridiva per “l’aria putrida di ricatti” (nel centrodestra) e per il debito pubblico galoppante, e invitava gli italiani a “smettere di vivere dominati da passioni tristi”. Ed era il Veltroni che, da assente, ogni tanto fa cucù: anche nel 2013 ha fatto cucù, dando alle stampe un libro sulla “sinistra che vorrei” (“E se noi domani”, è il titolo, e quella del “noi” dev’essere un’ossessione: “Noi” si intitolava pure il romanzo quadri-generazionale del 2009, protagonisti un nonno un figlio un nipote e una bisnipote). Fatto sta che la sinistra che voleva Walter, pur rottamato a parole da Renzi, non assomigliava a quella di Pier Luigi Bersani (il libro ha aperto la stagione del Veltroni “renziano”). Ultimo cucù qualche mese fa: eccomi, ci sono, ma non mi occupo di patto del Nazareno (anche se in qualche modo ne è stato antesignano), ha detto Veltroni con il suo silenzio da Venezia, dove si era recato per sposare i Clooney, definitiva promozione a amico dei vip: prima W. ci andava, ai matrimoni vip (Totti, Tom Cruise), ma non officiava. Voleva riqualificare l’Ostiense con Ferzan Ozpetek e Tor Bella Monaca con Claudio Santamaria (ora grillino), il Veltroni sindaco, ma adesso che il suo nome è diventato “ipotesi” è volato in Cile, a un convegno sul Futuro (come sbagliarsi). Quando c’era, Veltroni prendeva il 33,4 per cento e sperimentava l’ostensione del corpo parlante al Circo Massimo (passerella che fendeva la folla), costellando i comizi di interludi onirico-retorici. Gli stessi che, fin dai tempi dei congressi della Quercia (slogan “I care”), e giù giù fino al 2006, avevano fatto spazientire Massimo Gramellini (Veltroni “ipnotizzatore di masse variegate”, scriveva) e Michele Serra (“errabondo eclettismo”, fu la sentenza). Vennero altri tempi. E altri slogan smentiti dagli eventi (“in politica conta più l’essere che l’apparire”). Ma il Time definiva il Veltroni che prometteva “fatti e non sogni” un politico “smart” e il dipartimento di stato Usa (in epoca Bush) parlava di lui come “dell’unico” che “avrebbe potuto” unificare la sinistra (ultime parole famose).

 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.