Steven Gerrard, a sinistra, e Frank Lampard con la maglia della Nazionale inglese (foto LaPresse)

Tra Anfield e Stamford Bridge

Di calcio, passione, amore eterno e sangue rosso o blu

Piero Vietti

Dopo 25 anni nel Liverpool, Steven Gerrard chiuderà la carriera in America. Come avrebbe dovuto fare Frank Lampard, simbolo del Chelsea che invece ha scelto di restare in Inghilterra e giocare nel Manchester City. Per battere la sua ex squadra. Storia di due campioni uguali ma opposti.

La prima immagine è una delle ultime. 27 aprile 2014. Si gioca la trentaseiesima giornata di Premier League, il campionato inglese di calcio. Dopo questa, resteranno soltanto due partite prima della fine. Prima della vittoria finale. Il Liverpool Football Club è in cima alla classifica, con cinque punti di vantaggio sul Chelsea Football Club allenato da José Mourinho e sei sul Manchester City Football Club. Quel giorno ad Anfield, lo stadio del Liverpool, c’è proprio il Chelsea di José Mourinho. Sulla panchina dei Reds – li chiamano così i giocatori del Liverpool, da quando, nel 1964, l’allenatore Bill Shankly decise di vestire la squadra completamente di rosso per spaventare gli avversari – siede Brendan Rodgers. L’anno prima non ha lasciato il segno, e il suo Liverpool ha giocato un campionato anonimo come da qualche stagione, troppe, succede a una delle squadre più vincenti del mondo. Quest’anno però qualcosa è cambiato, e il Liverpool Football Club gioca il calcio migliore che si sia visto sui campi della Premier League. Ha un gioco d’attacco mostruoso, capace di segnare 101 reti, come non succedeva dalla fine dell’Ottocento. Il titolo in campionato manca dal 1990, e questo sembra l’anno giusto. Lo pensano tutti, lo dicono tutti, lo scrivono tutti. Lo urla la Kop, la curva di tifosi più famosa del mondo, quella che canta sempre, nonostante tutto. Quella di “You’ll never walk alone”. Quella in cui il capitano di questo Liverpool lanciato verso una vittoria storica, Steven Gerrard, guardava le partite da bambino. Basta battere il Chelsea, oggi, e il titolo sarà cosa fatta. Nelle giornate che mancano il Liverpool giocherà contro squadre abbordabili. Basta battere il Chelsea. Che difficilmente riuscirà a mettere le mani sul titolo. Anfield è vibrante, eccitato, la Kop urla tutto il suo amore. Il primo tempo non si sblocca, e manca un minuto all’intervallo quando Sakho passa il pallone a Gerrard, il capitano, a centrocampo. Gerrard fa quello che ha fatto per tutta la vita. Gurda la palla in arrivo, prepara il piede per lo stop e alza già la testa a cercare dove sono i suoi compagni per l’ultimo lancio del primo tempo. Non sei uno dei più forti centrocampisti del mondo per caso. Se Gerrard è lì, a 34 anni da compiere, con la fascia al braccio e la possibilità di guidare i suoi a un trionfo storico è perché se lo è meritato. Con la sua intelligenza, la sua precisione, la sua sicurezza. Gerrard però inciampa. Non si capisce come ma inciampa. La palla rotola sull’erba di Anfield – ammutolito – nella terra di nessuno. Un attaccante del Chelsea che non verrà ricordato nella storia del club di Londra, Demba Ba, la fa sua, corre verso la porta e infila l’1-0 del Chelsea. Gerrard prova a inseguirlo, ma riesce ad arrivare sul pallone solo quando questo è in fondo alla rete. Lo afferra, corre verso il centrocampo, ma dopo pochi passi rallenta. E mentre i suoi ricominciano a giocare si passa una mano sulla testa. Che cazzo ho fatto, pensa. Il Liverpool perde il campionato in quell’istante.

 

Pochi mesi dopo. Una nuova stagione. 21 settembre 2014. In un altro stadio di un’altra città, l’Etihad di Manchester, si sfidano i campioni in carica del City, padroni di casa, e gli attuali primi in classifica, il Chelsea di José Mourinho. A dodici minuti dalla fine – il Chelsea è avanti per 1-0 – nel Manchester City entra Frank Lampard. La faccia è tesa, il pubblico di casa lo applaude. Ma quello che fa più impressione è l’ovazione che gli tributa il settore ospiti, dove stanno i tifosi dei Blues. Frank Lampard nel Chelsea ha giocato 13 anni, segnando 211 gol (nessuno come lui nella storia del club) e vinto tutto quello che c’era da vincere: campionati, coppe d’Inghilterra, Champions ed Europa League. E’ uno dei migliori centrocampisti inglesi di sempre, uno dei migliori in attività nel mondo, e ha legato la sua faccia per sempre ai colori della squadra di West London. Alla fine dello scorso anno Mourinho lo ha lasciato andare: “Io devo programmare il Chelsea dei prossimi dieci anni, non quello della prossima stagione – ha detto lo Special One – Se Lampard resta impedisce ai più giovani di crescere”. Lampard allora ha fatto quello che fanno tanti calciatori, soprattutto in Inghilterra: ha accettato l’offerta di un club americano, il New York City Football Club. Altri ritmi, meno pressioni, tanti soldi, e qualche anno di esilio dolce negli Stati Uniti. Il New York City però comincia il campionato a gennaio, quindi ha girato in prestito per quattro mesi Lampard a una squadra gemellata, così che il giocatore possa continuare a tenersi in forma (anche se si è appena scoperto che con il New York Lampard avrebbe firmato solo un impegno, non un contratto). La squadra gemellata è il Manchester City, rivale del Chelsea nella corsa al titolo. Sette minuti dopo il suo ingresso in campo nella sfida contro i suoi ex compagni, Lampard vede un pallone troppo solo volare verso di lui in mezzo all’area, e fa quello che ha sempre fatto in vita sua. Si inserisce da dietro e segna. Al volo. Al Chelsea. L’Etihad Stadium urla tutta la sua gioia, ma lui non lo sente. Si alza in piedi impietrito, cammina, guarda i nuovi compagni implorandoli con gli occhi. No, non abbracciatemi. I tifosi del Chelsea si sentono come accoltellati dalla ex fidanzata. Eppure a fine partita lo invocano, lo applaudono, lo piangono. Piange anche lui. Frank, il freddo professionista, piange. “La Premier League è pazza – dirà dopo Mourinho commentando l’episodio – ma io non credo ai discorsi sulla passione e l’amore nel calcio. Lampard è un serio professionista che si è comportato come tale. Non lo rimpiango solo perché ci ha fatto questo gol”. A fine dicembre Lampard annuncia che resterà al Manchester City fino a giugno, per provare a vincere Champions League e campionato con la sua nuova squadra. Pochi giorni dopo segna il suo sesto gol stagionale, quello del definitivo 3-2 al Sunderland. Il gol che permette al City di raggiungere il Chelsea in testa alla classifica.

 

 

Quel giorno, il 2 gennaio di quest’anno, il Liverpool Football Club annuncia con un tweet che a fine stagione Steven Gerrard lascerà il club, l’unico in cui ha giocato dall’età di nove anni. Andrà negli Stati Uniti, e non in un’altra squadra di Premier League: “Non giocherò mai contro il Liverpool, è una cosa che non posso nemmeno contemplare”.

 

Chiunque voglia giocare a calcio a centrocampo dovrebbe guardarsi tutte le partite di Frank Lampard e Steven Gerrard. Prendere appunti e imparare. Entrambi leader e goleador, hanno segnato due generazioni di calciatori inglesi, facendo parte di una Nazionale che sulla carta avrebbe potuto vincere molto, ma che troppo spesso è andata a sbattere contro la maledizione dei rigori o l’autodistruzione. L’autobiografia di Lampard, “Totally Frank”, inizia con il racconto del rigore sbagliato contro il Portogallo ai quarti di finale dei Mondiali in Germania nel 2006. Lui, che in carriera ne ha segnati decine. Forti, precisi, imprendibili. Lui, che con un suo errore ha eliminato la Nazionale dei Tre Leoni da un Mondiale in cui le paure del passato sembravano finalmente battute. Non ci dormì per giorni, racconta. Già, i rigori. Se si guarda una qualsiasi raccolta video dei gol di Gerrard e Lampard si possono notare diverse somiglianze nello stile. Molti gol da fuori area, botte imparabili e improvvise, secche, all’incrocio, o basse e infingarde. Molti inserimenti da dietro, quando i difensori si preoccupano di marcare le punte, e i centrocampisti con i piedi buoni possono arrivare in corsa e prendere la mira. Molti rigori. Due anni dopo i Mondiali del 2006 Lampard si trovò a tanto così dall’alzare la Champions League con il suo Chelsea. Finale a Mosca contro il Manchester United. I Blues giocano bene, meglio, ma non riescono a battere i Red Devils di Alex Ferguson. Al 120’ è 1-1. Piove che il dio del calcio la manda, e gli occhi dei giocatori – stravolti – faticano a vedere qualcosa in quel diluvio. Lampard segna, perfetto, ma quando sul dischetto si presenta il capitano del Chelsea e amico di Frank, John Terry, il terreno cede: il piede sinistro di Terry scivola, la palla esce. Sarebbe stato il tiro della vittoria. Quella Champions League la vince il Manchester United, e Lampard deve aspettare. La alzerà, quella coppa, ma quattro anni dopo.

 

 

Lo aveva invece fatto tre anni prima il suo amico, compagno e rivale di ruolo in Nazionale Gerrard, con il Liverpool, in una notte in cui i tifosi dei Reds capirono che nulla è impossibile. Lontano da Anfield, a Istanbul. Presi a sberle dal Milan nei primi 45 minuti. 3-0, partita finita, superiorità rossonera imbarazzante. Seduti negli spogliatoi durante l’intervallo, Gerrard e gli altri sentono tremare le pareti. Non sono i milanisti che, secondo la leggenda, già stanno festeggiando. Sono le migliaia di tifosi del Liverpool che cantano “You’ll never walk alone”. Sotto 3-0. Cantano. Dopo nove minuti nel secondo tempo, Gerrard segna il gol dell’1-3. Quella volta la sua corsa verso centrocampo non rallenta. La sua faccia e le sue braccia dicono una cosa che è nel sangue di ogni tifoso della Kop e nel Dna di ogni giocatore del Liverpool Football Club da quando Bill Shankly ne forgiò il mito negli anni Sessanta. Ce la possiamo fare. Non siamo da soli. Il Liverpool pareggia 3-3, e poi vince ai rigori una partita drammatica e bellissima. Steven Gerrard, il ragazzo del Merseyside cresciuto con il Liverpool nel cuore, ce l’aveva fatta. Al ritorno a casa, un milione di persone aspetta i nuovi eroi per abbracciarli nelle strade della città. “Tagliate le mie vene e sanguinerò rosso Liverpool”, ha scritto Gerrard nella sua autobiografia. Se il calcio è una religione, Anfield è la cattedrale più bella, la Kop il suo altare più sacro.

 

 

Quando a nove anni fu notato nella squadra in cui giocava, il Whiston, arrivarono richieste da diverse squadre della zona, tra cui Everton, Manchester United e Liverpool. Steven e la sua famiglia non ebbero dubbi. Per suo padre l’appartenenza al Liverpool era una cosa seria. Red or dead. Gerrard crebbe nelle giovanili della sua squadra assieme a un altro grande del calcio inglese, Michael Owen. Lo schema sempre lo stesso. Bisognava dare la palla a Gerrard, che con un lancio dei suoi l’avrebbe depositata sui piedi di Owen. Che avrebbe segnato. Calcio, calcio, calcio e calcio. Steven viveva di calcio, respirava calcio, ci giocava in continuazione, anche nel campetto dietro a casa, pieno di cespugli pericolosi e immondizia. Lì una volta si tagliò un dito, e il medico all’ospedale disse che andava amputato. Carriera finita prima ancora di iniziare. Venne fermato in tempo da un responsabile del settore giovanile del Liverpool, chiamato al volo dalla famiglia.

 

Negli stessi anni a Londra Frank Lampard studiava come diventare un grande centrocampista. “In tutta la mia carriera non ho mai visto un professionista come lui”, dirà anni dopo Mourinho, allenandolo alla sua prima esperienza al Chelsea. La gavetta di Lampard è molto diversa da quella di Gerrard, ma rivela la stessa dedizione, anche se un amore diverso. Il padre di Lampard, Frank Sr., era stato un ottimo terzino del West Ham, storica squadra di Londra, così come qualche anno prima lo zio, Harry Redknapp. A casa Lampard si respirava West Ham, e il piccolo Frank, spinto dal padre, aveva il sogno di indossare quella maglia. Se Lampard oggi, a 36 anni, è il campione che è, molto si deve alla dedizione del padre, ossessionato dall’idea di formare “calciatori moderni”. Disciplina mentale, allenamenti continui anche nel giardino di casa. Ogni giorno Frank doveva fare scatti e ripetute per tutta la lunghezza del prato. Continuerà a farlo per tutta la carriera, restando sempre per ultimo dopo gli allenamenti a esercitarsi da solo. Questa dedizione la impara anche da Gianfranco Zola, che è a fine carriera quando lui si affaccia nel Chelsea: l’italiano restava a fine allenamento a provare decine e decine di tiri in porta. “Se lo fa lui che è un fuoriclasse – pensava Frank – a maggior ragione devo farlo io”. Tecnicamente Lampard non è un fenomeno, non è uno di quelli che palleggiano per ore con ogni parte del corpo o che incantano con giochi di gambe e colpi impossibili. Quando si presentò per girare uno spot della Pepsi, il regista gli disse di fare “quello che sai”, e lui avrebbe ripreso il tutto. Aveva appena avuto a che fare con Ronaldinho. “Ma io so solo fare contrasti, tirare e fare gol da metà campo”, spiegò Lampard.

 

 

Negli anni in cui il padre è dirigente del West Ham e lo zio Harry ne diventa allenatore, il sogno di Frank si realizza: dopo tre anni nelle giovanili degli Hammers e una stagione in prestito allo Swansea, Lampard fa il suo esordio ad Upton Park, con la maglia della sua squadra del cuore. In cinque anni gioca 148 partite, vince una coppa Intertoto e segna 23 gol. Quando però la squadra comincia a faticare, e il manager Harry Redknapp è additato come colpevole, Lampard comincia a essere fischiato dai tifosi, che lo accusano di essere titolare solo perché figlio di papà e nipote di zio. All’inizio Lampard se ne frega, ma a un certo punto la situazione si fa insopportabile. Quando Redknapp viene esonerato, nel 2001, Lampard si guarda in giro e – con una perfidia che ancora gli rinfacciano – accetta l’offerta dei rivali storici del West Ham, il Chelsea. “Dopo la relazione con mia moglie Elen e nostra figlia Luna, la cosa che mi ha dato più soddisfazione nella vita è stato lasciare il West Ham e avere poi fatto quello che ho fatto”. Ranieri, l’allenatore dei Blues, lo apprezza e lo vuole in squadra. “Devi migliorare la fase difensiva”, gli dice, “e poi sarai perfetto”. Lampard accetta. E’ l’inizio di una storia d’amore che ha pochi paragoni tra chi ha militato nelle fila dei Blues. “Questo club è diventato parte della mia vita”, dirà qualche anno più tardi. “Qui sono felice, perché cambiare quando ami un club?”. Il calcio non è fatto di buoni sentimenti, direbbe Mourinho, e a parte l’impressione di vedere Lampard con la maglia azzurra del Manchester City, non dovrebbe esserci nulla di strano se un professionista cambia datore di lavoro. Chi avrebbe pensato che Pirlo sarebbe andato a fare le fortune della Juventus dopo tutti quegli anni al Milan? Eppure è successo.

 

Lampard ha trovato l’alchimia perfetta a Stamford Bridge, lo stadio del Chelsea, con la sua professionalità al servizio di un club che negli anni della sua militanza è passato dall’essere una buona squadra inglese a giocarsela sempre con le grandi d’Europa. I suoi baci alla maglia dopo ogni gol non erano artefatti, né studiati a tavolino. Lampard amava – e ama – sinceramente il Chelsea, come chiunque amerebbe una donna con cui si sono passati gli anni più belli, emozionanti ed eccitanti della propria vita. Gerrard non può fare a meno di amare il Liverpool, come chiunque ami sua madre.

 

 

Nel 2005 Gerrard e Lampard rischiarono di giocare insieme non solo in Nazionale, ma anche nella stessa squadra di club, il Chelsea. José Mourinho voleva a tutti i costi il centrocampista dei Reds, e già durante la stagione uscirono voci su un probabile accordo tra Steven e i Blues. Lui, che aveva in testa solo la stagione del Liverpool e la finale di Champions sempre più vicina, rimandava il discorso con i media. Il 27 febbraio di quell’anno, però, Chelsea e Liverpool si erano giocate la finale di League Cup. Era la prima volta che Gerrard portava il Liverpool, il suo Liverpool, a una finale di coppa. Durante la partita, in vantaggio per 1-0, Gerrard già immaginava la festa finale, con il trofeo tra le mani, il giro di campo e i tifosi in delirio. Verso la fine del match, però, Gerrard segnò un autogol. E il Chelsea vinse la partita ai supplementari. Prima della premiazione tutti videro Mourinho consolare Steven in mezzo al campo. I tifosi del Liverpool allo stadio cominciarono a insultarlo, arrivando a sostenere che avesse giocato male apposta, dato che tanto si stava per accordare con il Chelsea. Gerrard soffrì molto quella situazione, ma quando a maggio di quello stesso anno alzò la coppa dei Campioni a Istanbul, dopo avere eliminato proprio il Chelsea in semifinale, fu lui stesso a chiedere ai giornalisti: “Ma dove volete che vada?”. Le cose però non furono semplici, e la società tardava con una proposta. Gerrard si sentì scaricato, e pensò seriamente di andarsene. Alcuni tifosi, delusi, bruciarono la sua maglia davanti ad Anfield, ovviamente in favore di telecamera. Gerrard chiamò suo padre e suo fratello, nelle cui vene scorre lo stesso sangue rosso Liverpool. Che faccio?, chiese. Steve, don’t go. Don’t leave the club you love. Non andartene, non lasciare la squadra che ami. A dirgli così non era solo il padre preoccupato perché il figlio facesse la scelta giusta. Era il tifoso innamorato del suo campione e della sua squadra. Era tutta la Kop. Tutto Anfield. “Avrei potuto guardare il padre che adoravo con gli stessi occhi? – scrive Steven nella sua autobiografia riferendosi a quei giorni – Avrei potuto guardarmi ancora allo specchio? Gesù, quante cazzo di domande. Potevo abbandonare la Kop? Avrei davvero potuto indossare una maglia del Chelsea e affrontare il Liverpool davanti alla Kop? Pensaci, Stevie. Pensaci bene. Potevo davvero andarmene, fare un passo verso l’ignoto e partire? No. No. No. Sapevo che al Chelsea avrei avuto grandi opportunità, ma il mio cuore non mi avrebbe fatto lasciare Liverpool. Avrei potuto ricominciare una nuova vita con la mia famiglia in un’altra città? Non potevo tagliare le mie radici”. Ufficialmente Gerrard disse di voler restare al Liverpool per continuare a vincere: “Siamo campioni d’Europa in carica”. Mourinho fu profetico: “Ha ragione, ma tra dieci anni conteremo quanti trofei avrà vinto il Liverpool e quanti il Chelsea. E Gerrard avrà perso”. In dieci anni i Reds hanno vinto solo una League Cup, una FA Cup e un Community Shield; i Blues di Lampard due campionati, un Community Shield, quattro FA Cup, una Champions e un’Europa League. Aveva ragione Mourinho. Ma nessuno oggi può ragionevolmente sostenere che Gerrard abbia avuto torto.

 


Mentre Lampard comincia a raccogliere trofei con il Chelsea, Gerrard smette di farlo con il Liverpool. I Reds navigano per anni sotto ai primi posti, i Blues sfiorano una Champions League nel 2008 e alzano coppe con una media sorprendente. Ma è proprio la coppa più importante di tutte l’ossessione del proprietario del Chelsea, il russo Roman Abramovich. Ci prova con Carlo Ancelotti in panchina, dal 2009 al 2011. Niente da fare. Soprattutto al secondo anno, che sembrava quello buono, i Blues perdono Community Shield e campionato battuti dal Manchester United, ed escono ai quarti di finale di Champions League, battuti anche lì dal Manchester United. L’anno dopo è lacrime e orgasmo per ogni tifoso dei Blues, e per Lampard in particolare. Sulla panchina del Chelsea arriva lo Special Two, quell’André Villas-Boas che stava seguendo le orme del maestro Mourinho, lo Special One. Villas-Boas al Chelsea sbaglia tutto, e comincia a trattare Lampard come un rincalzo. Sistematicamente tenuto fuori in tutte le partite che contano, Frank osserva dalla panchina lo sbriciolamento dei Blues. Dopo la sconfitta per 3-1 a Napoli agli ottavi di Champions League, con Lampard di nuovo tenuto fuori, Villas-Boas viene esonerato. Si cerca la soluzione interna, per traghettare la squadra in modo degno fino a fine stagione. Manager diventa Roberto Di Matteo, ex giocatore e allenatore in seconda. Nel ritorno contro il Napoli, a Stamford Bridge, Lampard è titolare. Il Chelsea compie una rimonta da molti considerata impossibile, visto lo stato di forma della squadra. I “vecchi”, tenuti fuori da Villas-Boas, salvano i Blues. Drogba, 1-0. Terry, 2-0. Poi il Napoli accorcia con Inler, 2-1. Poi segna Lampard, su rigore, 3-1. Ai supplementari Ivanovic completa il capolavoro, 4-1. Il Chelsea rinasce, Lampard ricomincia a giocare, e anche quando Di Matteo lo tiene fuori aiuta i compagni dalla panchina, guida la squadra. “Frank è un giocatore chiave, spero che resterà in questo club fino alla fine della sua carriera”, dice l’allenatore ai giornalisti. Il Chelsea va avanti in FA Cup e in Champions League. Il 18 aprile del 2012, contro tutte le previsioni, batte il Barcellona dei mostri 1-0 a Stamford Bridge. Il capolavoro è una settimana dopo, in Spagna. Il Chelsea gioca una partita intelligente, difesa e contropiede. Lampard è in campo, e guida la squadra al 2-2 finale che sa di impresa, dato che per un’ora i Blues giocano in dieci per l’espulsione del capitano Terry. Non c’è tiki taka che tenga. Il Chelsea è in finale di Champions League, che si giocherà il 19 maggio a Monaco di Baviera, contro i padroni di casa del Bayern. Terry non ci sarà. Ci penserà Lampard. Con la fascia di capitano al braccio, Frank guida i suoi a una vittoria epica. Il Bayern prende a pallonate i Blues per tutta la partita, passa in vantaggio nel secondo tempo ma viene raggiunto a due minuti dalla fine. Ai supplementari i tedeschi sbagliano un rigore. Finisce 1-1. Ancora rigori, come nel 2008. Questo volta non c’è Terry a sbagliare il tiro decisivo. Il Chelsea è campione d’Europa per la prima volta. Dieci giorni prima, a Wembley, aveva vinto la sua settima FA Cup. Contro il Liverpool di Gerrard.

 


Quest’anno la finale di FA Cup, l’ultimo atto della stagione calcistica inglese, si giocherà il 30 maggio. Il 30 maggio di 35 anni fa Steven Gerrard nasceva a Whiston, 13 chilometri da Liverpool. Se il calcio fosse un romanzo a lieto fine a Wembley quest’anno dovrebbe andarci il Liverpool Football Club. E vincere. E Gerrard dovrebbe alzare il suo ultimo trofeo da capitano. Ma il calcio non è quasi mai un romanzo a lieto fine. Gerrard lo sa, e se lo ricorda tutte le volte che con la sua auto entra ad Anfield, passando davanti al memoriale che ricorda i caduti di Hillsborough, lo stadio di Sheffield in cui 96 tifosi del Liverpool morirono schiacciati dalla folla senza che la polizia intervenisse. Era il 15 aprile del 1989, e i Reds si giocavano la semifinale di FA Cup contro il Nottingham Forest. Gerrard aveva nove anni, e guardando la tv quel giorno provò un senso di vuoto. Speriamo che allo stadio non ci sia nessuno che conosco, pensava guardando quelle immagini, i corpi senza vita appoggiati sul campo da calcio. Il mattino dopo Steven venne svegliato dal nonno, venuto apposta a casa sua per parlare alla famiglia. “Ho una brutta notizia – disse – Jon-Paul è morto”. Jon-Paul era il cugino di Gerrard, e quel 15 aprile aveva solo dieci anni. Strappato alla vita e all’amore della sua vita da una morte insensata. Non si può morire a dieci anni per seguire la propria squadra del cuore, piangeva Steven. All’epoca Gerrard aveva appena cominciato a giocare nelle giovanili di un Liverpool ferito a morte dalla strage di Hillsborough. Negli anni che seguirono i genitori di Jon-Paul lo incoraggiarono a continuare a giocare: “Tuo cugino sarebbe orgoglioso di te”. Ogni volta che scende in campo con la maglia del Liverpool addosso, Gerrard pensa che lassù, da qualche parte, Jon-Paul sta facendo il tifo per lui. Con tutta la Kop. Ad Anfield, per sempre.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.