Roger Scruton

Indagine sul gran conservatorismo di Scruton (per fortuna non importabile)

Alfonso Berardinelli

Personalmente posso testimoniare, e più in generale posso immaginare, che al lettore italiano il lungo e dettagliato resoconto che Richard Newbury ha fatto del libro di Roger Scruton, sul Foglio di sabato scorso, può fare un effetto sia corroborante sia desolante.

Personalmente posso testimoniare, e più in generale posso immaginare, che al lettore italiano il lungo e dettagliato resoconto che Richard Newbury ha fatto del libro di Roger Scruton, sul Foglio di sabato scorso, può fare un effetto sia corroborante sia desolante. La prima cosa, tanto ovvia quanto fondamentale, che Newbury-Scruton ci costringono a ricordare, è che l’Inghilterra non è l’Italia: storia, politica, società differiscono profondamente e il codice intellettuale del dibattito politico in area anglosassone non è facilmente traducibile nel nostro codice, più confuso e più equivoco, ma anche nato da realtà e vicende nazionali inconfrontabili.

 

I paesi che hanno inventato e cercato nel corso di due o tre secoli di realizzare società liberal-democratiche (all’Inghilterra e agli Stati Uniti va aggiunta naturalmente, con tutte le sue diversità, la Francia) hanno più cose del loro passato che sono da conservare, dall’Habeas Corpus in poi, mentre in Italia il più lontano punto di riferimento su cui ragionare in positivo è la costituzione repubblicana, che ha poco più di mezzo secolo. Inoltre, l’inerzia civile della società italiana ha mostrato ripetutamente la nostra immaturità quanto a sovranità popolare e a sovranità nazionale. Non abbiamo ancora scoperto di essere una nazione all’interno dei cui confini esercitare il nostro potere di decisione e la nostra capacità di autogoverno.
Se non siamo una nazione consapevole, è però non meno vero che non siamo neppure un popolo. Anche in questo caso, la sola esperienza alla quale possiamo fare riferimento è quella che ha portato da un antifascismo attivo di minoranza alla più diffusa resistenza antinazista maturata nel corso della guerra. Ma le esperienze di guerra, per quanto drammatiche e profondamente vissute, risultano spesso effimere perché si disfano e si dimenticano presto in tempo di pace. L’impegno politico vissuto impugnando le armi e rischiando la vita non ha, non può avere molto in comune con l’impegno politico a cui ci si dedica quando la pace è tornata e la contrapposizione fra amici e nemici è necessariamente più sfumata.

 

Come si è visto in moltissimi casi, i leader dei tempi di lotta non si rivelano quasi mai buoni leader quando si tratta di governare. La passione di competere con nemici e avversari forma caratteri umani poco adatti a rispettare le regole democratiche e le opinioni altrui: poco adatti a dedicarsi con altrettanta passione a regolare, equilibrare, migliorare le condizioni di una vita associata che deve anche essere lasciata libera di svilupparsi secondo buone consuetudini e un condiviso buon senso.
Scruton è caratterialmente, mi sembra, un fiero conservatore in quanto è un fiero britannico: a cui venne presto l’idea, quando i comunisti erano molti, che fosse necessario “difendere la civiltà occidentale da tutto quel ciarpame”, cioè dal “ridicolo, incomprensibile linguaggio marxista”.

 

Di marxisti incomprensibili e ridicoli ce ne sono stati. Eppure il linguaggio marxista ha portato qualcosa di buono perfino in una cultura votata all’empirismo come quella inglese, da cui lo stesso Marx ha imparato molto quando lavorava a liberarsi da quel “mondo alla rovescia” poggiato sulla testa che era la filosofia di Hegel. Il marxismo non è nato dal nulla. Si dimentica troppo facilmente che per un intero secolo, da metà Ottocento a metà Novecento, l’Europa è stata terreno di lotte di classe feroci, combattute senza esclusione di colpi, in cui lo sviluppo del capitalismo era (cosa che Scruton nega) esattamente una vicenda in cui l’arricchimento di una minoranza privilegiata provocava l’umiliazione, l’oppressione e la miseria della maggioranza, per la quale il lavoro era una promessa che si trasformava in una maledizione. La classe operaia inglese raccontata da Edward P. Thompson, storico di formazione marxista, costituiva un mondo parallelo e separato, davvero un’altra razza umana, rispetto alla borghesia e alle classi dirigenti.

 

Il riferimento di Scruton a Orwell come maestro, per quello che capisco dall’articolo di Newbury, mi sembra che riguardi il suo precoce, lucido, onesto e coraggioso antistalinismo e anticomunismo, che non gli ha mai impedito tuttavia di vedere le intollerabili ingiustizie sociali della sua amata e non amata Inghilterra: “una famiglia con le persone sbagliate a dirigerla”.
Progressisti o conservatori? Rivoluzionari o riformisti? Partigiani del passato o del futuro? Questi schieramenti mentali sono sempre stati e restano desolatamente schematici: partiti politici del cervello, che instaurano nel pensiero un regime bellico. Quello che conta, credo, è vedere se in un periodo o momento, in un preciso paese e nazione, le cose da conservare sono più o meno numerose e preziose delle cose da cambiare.

 

[**Video_box_2**]Leggo con interesse, attenzione, rispetto e divertimento quello che dice Roger Scruton. Ma eviterei di ritenere importabile in Italia il suo battagliero conservatorismo. Nella nostra instabile e poco amata patria ci sono più cose da cambiare che da conservare, sia nell’assetto statale che nello stile politico e nella cosiddetta società civile.

 

Ci sono alcune cose care a Scruton che sono (absit iniuria verbis) irreparabilmente invecchiate. Quando Newbury scrive, credo parafrasando Scruton e Orwell, che “il primo obiettivo del totalitarismo è annientare la memoria, in modo da controllare il presente e, di conseguenza, il futuro”, non riesco a capire a che cosa si pensa e quale attualità abbia una tale considerazione. Anche lo sviluppo capitalistico e la presente democrazia tecnologica tendono fortemente a svalutare e cancellare la memoria. Mostrano di temerla o di ritenerla un fastidio. Trionfa il culto del nuovo perché sempre nuove sono le merci da vendere. Sulle pratiche terroristiche di manipolazione di Stalin, Hitler e seguaci, sappiamo quasi tutto. Sul “totalitarismo” (tra virgolette) morbido, ipotetico, eventuale o incombente delle nostre società libere sappiamo ancora poco. Capitalismo, liberalismo e democrazia immaginiamo che stiano bene e tranquillamente insieme. Non mi sembra che sia così. E’ guardando con maggiore chiarezza ai loro conflitti reciproci che si può capire meglio la spesso esasperante ambivalenza in cui viviamo.

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