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Che cosa cambia con la sentenza che approva gli ovociti “brevettati”

Redazione

La decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea, resa nota ieri, di autorizzare la brevettabilità a fini commerciali di un “ovulo umano manipolato ma non fecondato”, non cambia la regola, ribadita dalla stessa Corte nel 2011, secondo la quale l’embrione umano non possa essere oggetto di brevetto e di commercio.

Roma. La decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea, resa nota ieri, di autorizzare la brevettabilità a fini commerciali di un “ovulo umano manipolato ma non fecondato”, non cambia di una virgola la regola, ribadita dalla stessa Corte nel 2011, secondo la quale l’embrione umano (e quindi anche l’ovocita fecondato, che è un embrione) non possa essere oggetto di brevetto e di commercio.

 

Se quell’importante divieto rimane fermo, nella nuova sentenza si riconosce invece – questa è la novità – la possibilità di coprire con brevetto a fini commerciali un ovocita umano “manipolato” (cioè oggetto di una procedura biotecnologica frutto dell’ingegno umano, quindi non un ovocita per come si trova “in natura”). A patto, però, che quella procedura non possa in alcun modo consentirgli, nemmeno potenzialmente, di svilupparsi in essere umano.

 

Il caso affrontato nella sentenza di ieri riguarda una compagnia biotecnologica inglese, la International Stem Cell Corporation, la quale aveva chiesto di brevettare una procedura messa a punto nei suoi laboratori e definita “attivazione partenogenetica di ovociti per la produzione di cellule staminali umane embrionali”. A dover essere brevettato non era quindi l’ovocita umano in sé, ma quella particolare procedura per stimolare ovociti umani non fecondati e indurli a dividersi e svilupparsi analogamente a quelli fecondati, secondo il processo chiamato comunemente “partenogenesi”. Già a luglio, l’avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione europea, Pedro Cruz Villalón, aveva messo in luce che i “partenoti” ottenuti con quella tecnica non erano in nessun modo assimilabili a embrioni umani, in quanto dotati solo di Dna materno (quello dell’ovocita) e mancanti totalmente di quello paterno. Incapaci, quindi, di poter sviluppare un essere umano. La Corte di giustizia, con la sua sentenza, non ha fatto altro che riconoscere la fondatezza di questa posizione, e il diritto della Isc a brevettare i suoi “partenoti”, che non sono embrioni e che non potranno diventarlo: “Il solo fatto che un ovulo umano attivato per partenogenesi inizi un processo di sviluppo non è sufficiente per considerarlo un embrione umano”, scrive la Corte.

 

Una versione tutt’altro che tranquillizzante della decisione della Corte di giustizia europea la dà invece il bioeticista Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale per la bioetica. “E’ abnorme brevettare qualcosa che deriva dalla manipolazione del corpo umano”, ha detto all’AdnKronos, e “rischia di creare discriminazione tra le persone e contenziosi”, oltre ad aprire “scenari terribili” sulla possibilità di mettere un vero e proprio copyright su “parti del corpo umano”. Non si tratta, in questo caso, di liceità o meno della ricerca, ma di possibilità di usare quel copyright a fini commerciali. Di “sentenza generica” che quindi si presta al rischio almeno teorico “di incrementare il commercio illegale di ovociti” parla invece il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell’Università di Roma Tor Vergata, visto che “non si considera che questi ovociti da qualcuno bisogna prenderli”.

 

[**Video_box_2**]Le polemiche sulla brevettabilità del materiale genetico umano non sono una particolarità europea. Nel giugno del 2013, per esempio, la Corte suprema americana ha stabilito all’unanimità che a poter essere brevettabile a fini industriali è solo il “materiale genetico di natura sintetica”, ottenuto in laboratorio attraverso procedure biotecnologiche. Niente brevettabilità, invece, per frazioni di Dna umano e per i geni in esso contenuti, nel caso in cui siano semplicemente isolati. Questa pronuncia – che come è evidente risponde a princìpi analoghi a quelli usati dalla Corte di giustizia europea – era intervenuta per negare alla Myriad Genetics il brevetto dei geni umani Brca1 e Brca2, che l’azienda aveva isolato negli anni Novanta, e che sono legati alla maggiore predisposizione ai tumori femminili. La Myriad, che commercializzava in esclusiva i suoi test per individuare i geni a rischio, negava ad altre aziende la possibilità di fare la stessa cosa. In quell’occasione, considerata storica nell’ambito della ricerca medico-scientifica, il presidente della Corte suprema americana, Clarence Thomas, aveva detto che “il Dna è un prodotto della natura e non è idoneo per un brevetto per il semplice fatto di essere stato isolato. E’ evidente che Myriad non ha creato ex novo né alterato alcuna informazione genetica decodificando i geni Brca1 e Brca2”.

 

Rimane, in America così come in Europa, il grande interrogativo sui limiti della manipolabilità (e commerciabilità) dell’umano. Limiti continuamente spostati in avanti, e non è mai una buona notizia.

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