Se per eleggere un giudice costituzionale non bastano cinque mesi

Salvatore Merlo

il Parlamento non è riuscito a eleggere il suo quindicesimo giudice costituzionale. Anzi, il Parlamento “ci ha rinunciato”, dicono, sorridendo felici del buffo paradosso, i deputati e i senatori più spiritosi. Augello, Ncd: "Un giudice in più o in meno non cambia niente. Evidentemente abbiamo deciso di risparmiare”.

Roma. Dissentire non è tradire, dubitare non è una malattia, ma nel buio dell’urna, nello scrutinio segreto in cui ciascuno accende una trattativa privata e consuma una sua invisibile ripicca, ancora dopo cinque mesi il Parlamento non è riuscito a eleggere il suo quindicesimo giudice costituzionale. Anzi, il Parlamento “ci ha rinunciato”, dicono, sorridendo felici del buffo paradosso, i deputati e i senatori più spiritosi, tra cui Andrea Augello, il senatore del Nuovo centrodestra che esorcizza così il gioco oscuro di impallinamenti e messaggi trasversali, franchi tiratori e strepiti d’Aula, cominciato a settembre e culminato nel crudele e definitivo spelacchiamento della candidatura di Luciano Violante: “Un giudice in più o in meno non cambia niente. Evidentemente abbiamo deciso di risparmiare”.

 

Ma la vicenda comincia ad assumere tratti grotteschi, nell’indifferenza dei giornali, nel silenzio delle alte cariche dello stato, e proprio a due mesi dall’inizio del grande gioco della legislatura, cioè quell’elezione del presidente della Repubblica che, guarda un po’, avviene anche questa a scrutinio segreto, mirabolante terra d’avventure per minoranze turbolente, rottamati illividiti e peones certi di non essere più destinati a finire nei posti sicuri del famoso listino bloccato, garanzia d’un seggio parlamentare. E certo la politica non è una tragedia di Shakespeare, non ci sono cadaveri dietro le tende di Montecitorio, e infatti in questi cinque mesi, i deputati e i senatori, protetti dall’anonimato del voto segreto, si sono abbandonati alla commedia e al cinepanettone, hanno votato per Massimo Boldi e per Topo Gigio, qualcuno disegnava fiorellini sulla scheda, qualche altro rievocava Mussolini, finché la dissipazione goliardica non ha spinto decine e decine di loro a convergere su Pietro Grasso, il presidente del Senato, che ovviamente non può fare il giudice costituzionale, ma si è comunque sentito preso per quella parte del corpo che non viene mai menzionata sulle pagine dei quotidiani seri.

 

[**Video_box_2**]Lo smacco di tante fumate nere è il trionfo del Parlamento e della sua febbre, delle sue allegrie antinazarene, di quei giochi d’ombra nei quali si disfa la trama periclitante degli alterni rapporti tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, come dicono nella segreteria del Pd e come suggeriscono anche ad Arcore, cioè nei due quartier generali, quello del Cavaliere e quello del Ragazzino, laddove nessuno si preoccupa troppo di un giudice costituzionale (è il giudice di Berlusconi quello che manca), ma dove pure tutti vedono in questa mancata elezione una spaventosa deformazione del futuro: che succederà nel voto per il presidente della Repubblica? Chissà. Il rovescio dei tradimenti e delle vendette, delle piccole ripicche consumate nel voto segreto, è nientemeno che la democrazia, anche se, dopo cinque mesi, non si sa più se ridere o piangere democraticamente, e nemmeno un editoriale di Ernesto Galli della Loggia a confortarci.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.