Una parte della copertina dell’album originale dei “Basement Tapes”, del 1975. Questo mese la Columbia/Legacy ha pubblicato la versione completa delle registrazioni fatte allora

Bob Dylan, nella cantina di Big Pink

Stefano Pistolini

“The Basement Tapes Complete”, ovvero l’estate del ’66 del cantautore, il suo caos controllato e tutte le sue fantastiche leggende.

La mistica attorno a questa storia è arrivata dopo. Come un’onda montante, sempre più alta, imponente, sovrastante. Prima, quella che conta, l’unica da cui bisogna partire, è la cronologia dei fatti. Perché contiene le intenzioni, soprattutto quelle inconsapevoli, e il loro progressivo dispiegarsi in una vicenda destinata a tradursi in archetipo assoluto della musica moderna. Bisogna tornare alle cose che sono successe. Risalire. Farlo con leggerezza, divertimento. Senza troppa solennità. Non è lì che risiede il mistero. Perché, per quanto impenetrabile sia, per quanto rivelatrici possano essere i suoi enigmi, ciò nel quale ci inoltriamo è un mondo di piacere e d’imprecisione, di allusioni e approssimazione, di svago, diletto, intuizioni e scommesse. Del quale il profeta riluttante è sempre stato lui. L’oggi settantatreenne vagabondo Bob Dylan.

 

Il 1965 e il 1966 sono stati gli anni della svolta per Dylan e le date-chiave nel percorso della musica pop come forma d’arte (nel ’78 in un’intervista a Rolling Stone, lui dice: “Bob Dylan non l’ho creato io. Bob Dylan è sempre stato qui. E’ sempre esistito. Quand’ero un bambino, c’era Bob Dylan. E prima che io nascessi, c’era Bob Dylan” – alla biforcazione tra rivelazione e sberleffo). Nel ’65 Dylan mette in atto la fin troppo celebrata conversione elettrica al festival di Newport (che era nell’ordine delle cose, per chiunque ne seguisse il forsennato percorso). Quindi s’imbarca in un divistico e vagamente decadente tour nel Regno Unito, col quale, secondo la critica dell’epoca, restituisce ai britannici, con gli interessi, il dispetto neo colonialista messo in atto poco prima dai Beatles. Le immagini b/n e assai cool del film-verità di D. A. Pennebaker “Don’t Look Back” ce lo restituiscono in tutta la sua potenza di quei giorni, strafottente e pervarso da una specie di febbrile, perenne ispirazione (“T’è piaciuto il film?” gli chiesero nel ’67, quando uscì. “Mi sarebbe piaciuto di più se m’avessero pagato”, rispose, con l’immutata capacità d’essere un piccolo pragmatico affarista della canzonetta e, al tempo stesso, il papa del Greenwich Village). La sua immagine di quei giorni è folgorante: un proto-punk graffiante, veloce come il baleno, con la lingua affilata e due occhi come fari abbaglianti. L’uomo più sexy del mondo che coincide col più provocatorio: un pacco di dinamite, che crogiola il giorno della primavera ’66 in cui, nuovamente in tour in Inghilterra, lo spettatore esasperato dalla platea di Manchester gli grida “Giuda!” e lui capisce d’aver fatto centro. La sua vita on the road ormai va avanti senza interruzioni da cinque anni, in una specie di permanente combinazione performativa, che il mondo della musica non perde di vista per un istante, consapevole che è da lui che arrivano i segnali sulle direzioni da seguire. Il supremo esegeta dylaniano Greil Marcus, in “Invisible Republic”, volume che ha dedicato al biennio ’66-’67 nella biografia di Dylan, parla di quel tour, che si divide tra Europa e Australia, come di un cimento che l’artista affronta “sotto attacco”, ma col più sprezzante degli atteggiamenti. Nel frattempo Dylan ha sposato Sara, la ragazza ebrea del Delaware d’origini bielorusse (la “Sad Eyed Lady of the Lowlands”), conosciuta a New York e frequentata per un paio d’anni, senza interrompere almeno due o tre relazioni con altrettante fanciulle. Con gli amici nega perfino il matrimonio, avvenuto sotto un albero di quercia a Long Island, in beata solitudine. Corre, il Bob di quei mesi. Corre come un forsennato, posseduto da una vibrazione esistenziale di cui la musica è solo una delle variabili. E così s’arriva al 29 luglio del ’66 quando, appunto, sta correndo sulla sua moto, la Triumph Tiger T100, nei dintorni di Woodstock – che di queste vicende è il terminale alternativo alla parte bassa di Manhattan, la base rurale, il buen retiro a cui questi fuorilegge dell’arte tornano, tra una scorribanda e l’altra, a cercare sicuro rifugio tra quei boschi. L’incidente – poi gestito con impareggiabile maestria dallo stesso Dylan e dal suo stratega, il manager Albert Grossmann e presto convertito in mito utile al dispiegarsi della narrazione – è un mistero a sé stante, quanto a motivazioni e svolgimento. Lo stesso Bob s’è sempre divertito a offrirne versioni diverse: chissà, forse fu colpa d’un raggio di sole che l’aveva accecato, forse dello stordimento per l’improvvido consumo di stupefacenti, forse un guasto meccanico, ma perché non un tentativo di suicidio, o una semplice chiazza d’olio? Dylan è a terra. Qualcuno lo darà per morto, suggestionato dalla perfezione che avrebbe rappresentato quell’improvviso commiato. Cinquant’anni fa, pensate un po’.

 

Perfino i danni fisici subiti dall’artista non sono mai stati chiariti. Forse ci fu davvero il rischio di restarci, o di restare paralizzato, se è vero che si ruppe alcune vertebre del collo. Quel che è certo è che l’incidente provoca un’agnizione in Dylan: se non ci era riuscito con la moto, capisce che comunque è ora di dare una brusca frenata alla sua vita, modificarne repentinamente il corso, da subito imboccando una deviazione nascosta. Si ferma, si guarda attorno, scruta il giro d’affari che gli ruota attorno, getta lo sguardo ancora più indietro, agli inizi, ai propositi, ai disegni che l’avevano animato. L’istinto gli dice di riprendere il controllo. Per farlo deve riflettere, deve avere del tempo per sé, circondato da amici e da un ambiente confortante. Rompe tutti i contatti coi media, con la casa discografica, approfitta dei certificati medici per rinunciare a contratti, a special tv e a obblighi d’altro genere. Passa qualche settimana a giocare col montaggio d’un altro film, questa volta sulla tournée del ’66, che non vedrà mai la luce ufficialmente, circolando sottobanco col titolo di “Eat the Document”. Infine, all’imbocco della primavera ’67, decide di ricominciare a suonare. I suoi musicisti, quelli che lo accompagnano in tour e che sono ancora conosciuti col nome di battaglia di The Hawks, sono a portata di mano, sempre in quei dintorni tra Woodstock e Saugerties, che per la comunità artistica della costa orientale è ciò che il losangelino Laurel Canyon è per la West Coast. Bob li vuole con sé, non ha un’idea chiara in testa, ma vuole ricominciare. Alla spicciolata arrivano tutti. Nella casa battezzata “Hi Lo Ha” abita Dylan con Sara. Rick Danko vive a Wittemberg Road, non lontano. Gli altri, Robbie Robertson, Garth Hudson e Richard Manuel, stanno nella fattoria chiamata Big Pink, nel cui sottoscala Hudson sistema i due mixer e il registratore che s’è fatto prestare, e di cui s’occuperà personalmente lungo tutto l’arco delle imminenti registrazioni. Levon Helm, il batterista del gruppo, si unirà agli amici solo più avanti, verso la fine delle sessions: è il motivo casuale per cui buona parte delle incisioni sono prive di una base ritmica solida (sovente Dylan percuote la cassa della chitarra per tenere il tempo) assumendo quell’andamento liquido e impalpabile che avrebbe contribuito al fascino dell’intera operazione. L’atmosfera, quando si comincia – e peraltro fino alla fine di questa storia – è quella d’una vacanza. Per Dylan vale l’idea di una convalescenza, anche se non sarà mai chiaro se di un effettivo recupero fisico si tratta, o di un azzeramento della propria condizione psicologica, dell’occasione per una ripartenza. Le foto di quei giorni lo mostrano diverso dalle ultime immagini: faccia solare e sorridente, capelli lunghi, niente espressioni accigliate e provocatorie, un cappello bianco in testa, i sandali ai piedi, l’aria bucolica, un respiro che ricarica i suoi polmoni artistici, dopo la compressione piena dei fumi d’una rivoluzione.

 

Cosa si suona nella cantina di Big Pink nella primavera ’67? L’atmosfera rilassata proviene dalla grande familiarità musicale tra Dylan e i suoi più fidati interpreti. Ma la sensazione è che Dylan non spieghi, non annunci, non dica niente agli amici. Semplicemente voglia cominciare a suonare. Di nuovo la cronologia diventa importante, per capire che genere di lavoro, se vogliamo chiamarlo così – ma sarebbe meglio dire “esperimento” – Dylan e soci conducano in quei mesi. Introducendo il motivo di questo articolo: è appena uscito “The Basement Tapes Complete”, il cofanetto di sei cd con aggiunta di formidabili documentazioni accessorie, che costituisce la raccolta integrale delle registrazioni di quei giorni: 138 brani, accuratamente restaurati, filologicamente introdotti e, appunto, cronologicamente ordinati, sollevando finalmente la cortina di mistero su cosa effettivamente accadde, dal punto di vista creativo, durante il lungo iato dylaniano a Saugerties. Permettendo così a studiosi, fan e appassionati d’andare oltre le modeste ipotesi formulate all’indomani della pubblicazione, che avvenne nel 1975, otto anni più tardi, della versione ufficiale dei “Basement Tapes”, voluta dalla Columbia, etichetta ufficiale dell’artista, per controbattere alla proliferazione di registrazioni clandestine di quelle canzoni che – vuole un’altra leggenda, ma quante leggende in questi paraggi? – sarebbero all’origine dell’intero fenomeno dei “bootlegging”, dei vinili clandestini e non autorizzati. Dei quali l’antesignano sarebbe stato proprio il “Great White Wonder”, che raccoglieva un po’ di canzoni registrate in quei giorni da Dylan e compagni.

 

Nel basement di Big Pink, Dylan lascia che i suoi musicisti esprimano lo stile musicale che per ciascuno di loro è spontaneo: suoni antichi ed esperti al tempo stesso, un mix di sapienza, mestiere ed estrema raffinatezza. A partire dal genere che per loro è più naturale al momento: un morbido shuffle da taverna, venato di blues e generato da un’elegante rilettura del suono tradizionale. Il basso ondivago di Danko, il possente organo di Manuel, il piano honky tonk di Hudson, la chitarra venata di soul di Robertson, le percussioni minimali di Helm – quando è presente. I controcanti che tutti sanno fare e spontaneamente si divertono a offrire al capo. Lo spirito da improvvisazione, le risate, gli stop improvvisi, lo scambio di battute. Ma Dylan cosa vuole, cosa insegue? Ha un progetto in testa o le dotte ipotesi formulate da Greil Marcus sono solo disamine a posteriori, in omaggio a una creatività che, nell’essere spontanea, diventerà addirittura seminale? Robertson racconta: “Dylan voleva portare queste canzoni fuori dal nulla. Non sapevamo nemmeno se le scriveva, o se appartenevano ai suoi ricordi”. Marcus dà a queste composizioni la sigla di “conversazioni con una schiera di fantasmi”. Aggiungendo che “questi fantasmi non erano astrazioni”, ma le voci dell’“Anthology of American Folk Music”, realizzata dal benemerito Harry Smith. Di cui Dylan s’incarica di resuscitare lo spirito, per restituire senso alla canzone americana. Congiungendo, trasfondendo passato e presente. E dando forma al concetto di progresso nella tradizione – fondante per l’intero spirito nazionale. Circondato dall’atmosfera inconsapevole e rilassata, Dylan comincia a farsi accompagnare in una sequela di versioni di vecchie canzoni, sue e dei suoi autori preferiti, poco alla volta insinuando in scaletta alcuni pezzi inediti. Seguendo la progressione temporale delle registrazioni, finalmente testimoniata da questo box-set (ma comprensibile anche nel caso che, volendo limitare le spese, si opti per la versione “Raw” dei “Complete Basement Tapes”, con soli 38 pezzi in due cd), emerge chiaramente l’intenzione del progetto: non dare istruzioni ai suoi bravi musicisti, bensì chiedere loro d’assecondarlo nell’esecuzione di brani pescati nel canzoniere suo e di tanti altri autori (Johnny Cash in testa). Dylan, cantando con voce leggera, indaga: cosa accade se su quei brani radicati nella tradizione intervengono le letture, le interpretazioni stilisticamente spontanee di ciascuno dei musicisti? Ovvero se la chitarra venata di r’n’b di Robertson, o l’organo memore di Bach di Manuel, vengono invitati a convegno nei tre minuti saltellanti di una ballad che echeggia un juke-box anni Cinquanta, tra rock’n’roll e country? E se, in quell’atmosfera scanzonata, di tanto in tanto, lui chiede loro di seguirlo nella rilettura di un suo vecchio pezzo, o di uno appena buttato giù?

 

[**Video_box_2**]Viene voglia di chiamarlo caos controllato. Qui Dylan non predica, ma cerca. Avanza a tentoni, ma dentro di sé sa, o sente, dove vuole arrivare. Riversare, attraverso quel lavoro, tutti i suoni americani in un unico tritacarne. Non per inventare, ma per trovare il perfetto punto di comunione, anche solo intonando una cantilena che prende in giro l’amico Allen Ginsberg. Il bello è che l’esperimento riesce. E noi oggi, grazie a questi ascolti, possiamo verificarlo. Ma per Dylan quello è un laboratorio, un punto di partenza, è un lavoro preliminare, una verifica, una messa a punto. Non una produzione. E’ la congiunzione tra il momento di ritrovata armonia psicologica e la ridefinizione dei propri obiettivi. Il tutto condotto con leggerezza, senza drammaticità. Senza pathos, perché quelli di cui stiamo parlando sono dei ragazzi brillanti e un po’ sconvolti degli anni Sessanta, a loro volta turbolenti. Agli studiosi va il compito di derimere e schematizzare. Loro hanno solo suonato, seguendo le intuizioni che si formavano nella testa del 26enne Bob Dylan. Il genio che guidava la sua chiesa. Cercando le rivelazioni in una jam session.

 

Alla fine del ’67, la vacanza si è conclusa. Dylan sembra essersi dimenticato delle registrazioni di Saugerties. Per lui possono essere archiviate in un armadio. Hanno fatto la loro funzione. Hanno contribuito a farlo stare meglio, a confermargli le intuizioni che gli frullavano in testa e che gli hanno restituito la serenità necessaria per ricominciare a fare il suo mestiere di cantante e profeta, sebbene su ritmi modificati. Alla fine di quello stesso anno, Bob se ne va a Nashville e incide “John Wesley Harding”. Nessuno dei membri della band è con lui e il repertorio già segue traiettorie diverse, con un suono puro, cristallino, professionale e piuttosto matematico – quanto empatiche ed approssimative erano state le atmosfere delle registrazioni estive. Lui, è già altrove, in un altro capitolo del suo vangelo. Nel frattempo Robertson e gli altri canadesi hanno cambiato nome al gruppo, hanno assunto quello di The Band, e finalmente hanno cominciato a volare con le proprie ali, diventando la formazione originale di quell’idea di “Americana”, la fusion tra tradizioni country-folk e influenze rock, che avrebbe forgiato il suono d’oltreoceano del successivo decennio e avrebbe permesso al suono americano d’appropriarsi di quella matrice espressiva del rock britannico, a lungo percepita come estranea ed esotica. E che ora, disciolta nello sciroppo d’acero del suono delle campagne e delle capitali musicali della nazione – New Orleans, Memphis e Chicago – predisponeva le condizioni di una nuova evoluzione stilistica.

 

Dunque Dylan voleva che questi nastri restassero roba privata. Poi la loro circolazione sottobanco lo convinse a far sentire qualcosa di quelle registrazioni. E oggi, infine, ci racconta come siano andate veramente le cose. Ovviamente lascia agli altri i commenti e si limita a sorvegliare l’operazione, con quel filo d’ironia che gli deve far pensare che è ben strano quanto seriosamente vengano ancora soppesate le sue antiche elucubrazioni. Gettando infine sul tavolo l’inatteso quinto asso: Bob qualche tempo fa ha chiamato il vecchio amico produttore T-Bone Burnett, confidandogli che nei cassetti aveva trovato qualcos’altro. Dei testi, delle poesie, delle liriche, chiamatele come volete, scritte negli stessi mesi del soggiorno di Saugerties. Suggerendo che sarebbe stata una buona idea inventare dei nuovi “Basement Tapes”, registrati adesso, da un’altra improvvisata combriccola di musicisti, assortita per l’occasione. Burnett ha eseguito diligentemente. Così ora, con Elvis Costello e Jim James dei My Morning Jacket a guidare le danze, a margine del tutto esce “The Lost River – The New Basement Tapes”, nuove canzoni su antichi testi dylaniani. Sicuramente Dylan deve essersi complimentato con se stesso per quest’ultima idea. A lui piace non buttare niente, mettere a rendita, tener vivo. Adesso, nel retrobottega del bar di L. A. dove passa i pomeriggi liberi, sarà certamente soddisfatto: le sue idee, spesso  schegge momentanee, fugaci illuminazioni, continuano a splendere. E lui diventa ieri, oggi e domani. Che, più o meno, è ciò che intendeva dire, dicendoci che egli già c’era prima. E che, per quanto riguarda tutto il corso della nostra vita, ci sarà sempre.

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