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Scala, doveva essere un trionfo e lo è stato

Jacopo Pellegrini

Diario della prima dove era in scena il "Fidelio" di Beethoven. Scontri all'esterno del teatro mentre Renzi e Napolitano disertano. Era l'ultima di Barenboim come direttore musicale. 

Ore 13,35: arrivo, in anticipo, alla Stazione centrale di Milano e sotto, all’ingresso della metropolitana, un altoparlante diffonde la voce di un tenore che, nei panni di Florestano, le tenta tutte pur di uscire indenne dal “Poco allegro”, seconda parte della sua aria all’inizio del secondo atto: la tessitura predisposta dal più antivocale dei compositori è atrocemente alta, diciamo pure spinta verso l’urlo, e il poveretto ce ne rende edotti ad ogni semiminima e croma. Però, che bella trovata quella di accogliere i viaggiatori al loro ingresso in città con la musica del “Fidelio”, l’opera di Beethoven – l’unica da lui portata a termine – che tra poche ore, per la precisione alle 18, aprirà la stagione del Teatro alla Scala: nel giorno del patrono, Sant’Ambrogio, la città si stringe intorno al suo teatro più famoso e importante, più “prestigioso” avrebbe detto Paolo Grassi, che, come tutti i milanesi (e lui, essendolo solo d’adozione, nel tentativo di mimetizzarsi finiva ovviamente con l’esagerare), nutriva un’insana predilezione per i superlativi.

 

Ore 17,30: piazza della Scala, chiusa al traffico e transennata. L’accesso da piazza del duomo-Galleria Vittorio Emanuele è quasi impossibile, tale e tanta è la folla che vi si assiepa. Stringersi si stringe la cittadinanza, ma una parte consistente di essa, parecchio adombrata (alcuni hanno buone ragioni, altri meno), più che intorno al teatro sembra volersi stringere addosso agli spettatori della prima per dargliele di santa ragione. Si raggiunge il teatro a piedi dopo lunghe, complicate circumnavigazioni. La polizia è in assetto da battaglia: c’è chi teme o, chissà, spera nel lancio di oggetti, in violenze fisiche. Il clima è teso e bellicoso. Qualche tafferuglio non mancherà.

 

Ore 17,45: Foyer del teatro. Pochi politici annunciati quest’anno, giusto il presidente del Senato, Grasso, e il ministro della Cultura, Franceschini, più Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale. Volti noti quanti se ne vuole: da Bazoli a Romiti, dalla Fracci alla onnipresente Valeria Marini, da Arbasino a Signorini (persino lui!), da Inge Feltrinelli a Calasso, a giornalisti, scrittori, banchieri finanzieri professionisti ricconi tanti, tra cui un anzianotto emerito coglione, seduto in platea giusto dietro di me, che subito dopo il Finale del primo atto, pagina commovente se mai ve ne fu, richiesto da qualcuno se ne seguirà un secondo, risponde “Temo di sì”. Resisteranno costoro in sala per l’intero spettacolo? (rammento, durante recenti inaugurazioni consacrate a Wagner, parecchi politici locali e rappresentanti del mondo dello spettacolo che, finito l’intervallo, restavano fuori in attesa della fine.) Buone notizie: hanno resistito quasi tutti.

 

Ore18,02: platea, fila G, posto 11: bellissima posizione centrale (grazie all’ufficio stampa, e a Lucilla Castellari in particolare). Sale al podio Daniel Barenboim, accolto da un applauso intenso, accompagnato da parecchi “Bravo!”: attacca l’inno di Mameli, luci accese, pubblico in piedi, qualche loggionista che canta. Invece dell’ouverture destinata alla terza e definitiva versione del “Fidelio” (1814), il direttore, come già aveva fatto nella versione integrale dell’opera registrata a Chicago per la Teldec una quindicina d’anni fa, opta per quella, ben più lunga (con lui tocca i 16 minuti), composta per la primitiva redazione dell’opera (1805), la “Leonora” n. 2, sorta di breve poema sinfonico ante litteram che anticipa temi e situazioni (ivi inclusa la liberazione, annunciata dallo squillo di una tromba, del prigioniero Florestano, il marito di quella Leonora che ci viene incontro sulla scena in panni maschili e col nome di Fidelio) del dramma che va ad incominciare. La mancanza dell’applauso alla fine dell’ouverture ingenera una lieve frizione armonica col primo pezzo cantato, il duetto Marzelline-Jaquino, ch’è in mi maggiore come l’ouverture “Fidelio” (mentre le “Leonora” n. 2 e n. 3 sono in do maggiore).

 

Nel palco di proscenio a sinistra il neosovrintendente della Scala, Pereira, canta felice tutte le parti, mentre la sua giovane e bellissima consorte si annoia visibilmente e a un certo punto esce (per rientrare alla fine dell’atto). La pensano come lei molti dei presenti: decisamente “Fidelio” non è opera da inaugurazione, il fasto visuale manca del tutto (siamo in una prigione) e i fatti esteriori sono troppo pochi per spettatori così poco musicofili. Durante il primo atto, dopo due timidi tentativi subito abortiti, un primo scroscio di applausi corona l’aria di Fidelio/Leonora. Una vera e propria ovazione, indirizzata soprattutto a Barenboim, saluta la calata del sipario. Quanto allo spettacolo, regia di Deborah Warner, scene e costumi (contemporanei: felpe, tute, giubbotti, per fortuna nessun cappottone di pelle nera) di Chloe Obolensky, che importa distinguere se si svolga in un carcere o in un capannone (mura di cemento grigio e mattoni): tutto sommato, si tratta di un pulito spettacolo d’intonazione tradizionale, non originalissimo nei movimenti e nei gesti, con qualche bella notazione psicologica e abbastanza ben raccontato.

 

 

L’intervallo dura molto a lungo: cambiare gli elementi scenici, specie se ingombranti come questi, alla Scala resta un problema non indifferente. Il sotterraneo, ingombro di macerie, assomiglia molto allo stanzone del primo atto; gli effetti luce di Jean Kalman, già apprezzati per la loro efficace sobrietà, hanno modo opportunità e libertà di dispiegarsi. La Warner aveva dichiarato d’intendere “Fidelio” non come una parabola etico-politica, un’esaltazione dei lumi, della libertà, contro l’oscurantismo e la tirannia, bensì come un’esaltazione dell’amor coniugale che trionfa su ogni ostacolo: e infatti, riesce molto toccante il duetto degli sposi alfine ricongiunti che cantano la loro “namenlose Freude”, la loro “gioia indicibile”, distanti l’uno dall’altra, sopraffatti dall’emozione e intimiditi dalla lunga lontananza (sono due anni che Florestano è prigioniero del bieco Pizarro, il governatore della prigione), e solo sulla coda orchestrale si accostano, si sfiorano. L’arrivo del ministro Don Fernando offre, tuttavia, il destro alla regista d’instillarci qualche dubbio sulla sincerità e sull’altezza morale del liberatore, un giovane politico rampante, una specie di Renzi tutto sorrisi e pacche sulle spalle, che proclama ai quattro venti ideali di fraternità e compassione, ma, a differenza di tutti gli altri, non sembra affatto turbato dal colpo di pistola che, fuori scena, elimina il cattivo Pizarro. Un po’ forzato m’è parso invece il broncio pervicace che Marcellina, la figlia del carceriere Rocco, già fidanzata di Jaquino ma innamorata di Fidelio, mette su quando scopre che il suo promesso è in realtà una donna: un sovrappiù che né il testo né la musica paiono giustificare in alcun modo. In definitiva, una messinscena non troppo originale, professionalmente accurata, con alcuni bei momenti, specie al secondo atto.

 

Che finisce alle 22,02 tra tripudi e lanci ostinati e ostentati di garofani dalla seconda galleria ovvero loggione. Il titolo con il quale Barenboim, prima maestro scaligero poi direttore musicale, dà l’addio alla Scala, l’opera che segna l’ingresso ufficiale di Pereira nella carica di sovrintendente-direttore artistico doveva necessariamente risolversi in un successo: gesto di affetto e gratitudine per il l’uno, non sempre benaccetto ai milanesi (verso i quali, d’altra parte, egli non ha mai mostrato particolare attaccamento), affermazione indiscutibile per l’altro, che attende di essere confermato al suo posto dopo l’anno di prova. Dodici minuti di battimani ed evviva offrono una solida garanzia su entrambi i fronti.

 

 

[**Video_box_2**]Battimani meritati dall’orchestra, un po’ meno dal coro, comunque corretto se non sempre morbido e rotondo nell’emissione, e dai cantanti, nessuno dei quali eccelso, tutti però ben preparati e abbastanza affiatati tra loro. Il migliore in campo mi è parso, chi l’avrebbe mai detto, il Florestano lirico, liederistico, di Klaus Florian Vogt; poi metterei Peter Mattei, eloquente Fernando, benché impegnato in una parte troppo bassa per lui, e il Primo prigioniero, Oreste Cosimo. Anja Kempe, Leonora, ha presenza e bel timbro, ma la scrittura è troppo onerosa per la sua organizzazione vocale. Buon attore, cantante onesto Kwanchoul Youn, Rocco; più che cantare parla, e neppure troppo bene, Falk Struckmann, Pizarro (a cui, oltretutto, la regìa prescrive una gestualità caricata, al limite del grottesco); flebile Mojca Erdmann, Marcellina, corretti Florian Hoffmann, Jaquino, e il Secondo prigioniero, Devis Longo.

 

Barenboim richiederebbe un discorso molto lungo e articolato. Basti dire, per ora, che ci ha dato un “Fidelio” sbilanciato verso l’opera romantica tedesca prossima ventura (il “Freischütz” di Weber, in fondo, è del 1821), in cui l’orchestra non è mai subordinata al canto, e anzi le voci sono avvolte quando non assorbite nel tessuto strumentale, e dove la drammaturgia non è decisa né dall’intreccio né, tantomeno, dai temi musicali, dalle varie melodie dei singoli numeri, bensì dall’armonia, dalla dialettica tensione-distensione, dissonanza-consonanza che contraddistingue ogni istante, in un’ottica che più beethoveniana di così non si può. Alcuni episodi (il Quartetto e il Finale nel I atto, l’aria di Florestano, il duetto Leonora-Rocco e quello Leonora-Florestano nel secondo) erano del tutto fuoco, altri, pur di qualità notevole, risultavano più freddi, poco coinvolgenti: ma potrebbe essere colpa della tensione connaturata alla prima o al pubblico non molto partecipe o interessato. 

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