Dagli anni 80 in giù

Ernesto Felli

Storia di una infelice decrescita e di una politica fiscale restrittiva. Cambiare fiscalità, adesso.

I guai del presente tendono fatalmente ad accorciare la nostra prospettiva, sia rispetto al passato che al futuro. A questa distorsione “naturale”, si aggiunge quella della politica e dei media intrinsecamente abbarbicati sulla cosiddetta attualità, ossia sulle contingenze del brevissimo periodo. Perciò, ogni tanto è bene fare qualche esercizietto di storia economica.  
Le difficoltà dell’economia italiana cominciano, contrariamente alla vulgata, prima dell’introduzione della moneta unica, cioè negli anni Novanta del secolo scorso. Tra il 1989 e il 1999, il tasso medio annuo di crescita del pil reale italiano è già il più basso tra i paesi avanzati: 1,4 per cento. Nell’aggregato Ocse raggiunge il 2,7 per cento, il 3,2 in Usa, il 2,8 nel Regno Unito, il 2,1 nell’Euro-area (2,7 in Spagna, 2,1 in Germania, 1,9 in Francia). Solo il Giappone ha un andamento comparabile al nostro. I primi anni dell’Euro portano qualche beneficio all’Italia, ma il tasso di crescita migliora solo marginalmente nel periodo 2000-2007 (1,6 per cento), cosicché il divario tra la performance della nostra economia e quelle avanzate resta sostanzialmente invariato. Con la Grande recessione, e negli anni successivi, la situazione peggiora: il tasso medio di “decrescita” nel biennio 2008-2009 (-3,3 per cento) è il più alto tra i paesi avanzati (ancora una volta assieme al Giappone), e tra il 2007 e il 2013 la contrazione del pil reale dell’Italia raggiunge il ragguardevole valore dell’8,5 per cento mentre è “solo” dell’1,7 per cento nel resto dell’Euro-area. Per il futuro, le previsioni sono quelle di un’ulteriore sebbene piccola riduzione del pil reale per l’anno in corso (-0,4 per cento contro un +0,8 per cento previsto per l’Euroarea), e di una ripresa lenta e comunque al di sotto della media europea nel biennio successivo.  Quale è stato il policy-mix macroeconomico nel corso di questo ventennio? Per quanto riguarda la politica fiscale, in Italia è stata fondamentalmente restrittiva a partire dal 1993 e con l’intervallo del biennio 2009-10, come mostra il segno (positivo) del saldo primario strutturale (al netto degli interessi sul debito pubblico e delle oscillazioni cicliche). Ciò ha permesso di mantenere relativamente sotto controllo il deficit (cioè in media intorno al 3per cento in rapporto al pil) sino alla crisi iniziata nel 2008. Nel 2007, il deficit pubblico dell’Italia era pari all’1,6 per cento del pil, in linea con il dato medio dell’Euro-area. Tuttavia, allo scoppio della crisi l’Italia si trovava con un debito pubblico ad un livello ancora critico, superiore al cento per cento del pil (103 per cento nel 2007), nonostante i (troppo) graduali miglioramenti cominciati alla metà degli anni Novanta (nel 1994 questo rapporto aveva raggiunto il picco del 121 per cento).

 

In conclusione, la politica fiscale è stata essenzialmente votata all’obiettivo del consolidamento fiscale. Tale indirizzo è stato mantenuto in Italia (e nell’area dell’Euro) prima e dopo la crisi. Nello stesso tempo, la politica monetaria della Bce ha assunto un indirizzo espansivo come risposta alla Grande recessione, ma, a causa della specificità delle regole e degli equilibri politici europei, è stata più cauta e meno radicale di quella della Fed americana. In ogni caso a partire dal 2013 la Bce ha mancato il suo “mandato” istituzionale visto che il tasso d’inflazione è rimasto ben al di sotto del 2 per cento.

 

Come riprendono piano le economie

 

[**Video_box_2**]La lentezza della ripresa delle economie avanzate, che come s’è visto ha colpito in modo speciale l’Italia (che in realtà non è nemmeno uscita dalla crisi), è stata certamente causata dalla eccezionale severità della crisi finanziaria, a cui per l’Europa si è aggiunto lo choc dei debiti sovrani. Ma è opinione diffusa che sia dipesa e dipenda anche dalla mancanza del supporto della politica fiscale. Questo però è un grosso equivoco. Quando si parla di politica fiscale espansiva, si intendono gli interventi discrezionali a sostegno della domanda – come ad esempio il “keynesiano” aumento dell’occupazione pubblica. E’ chiaro però che in presenza di elevati e crescenti debiti pubblici e di settori statali larghi e inefficienti, una politica del genere contrasta con la sostenibilità (di lungo periodo) delle finanze pubbliche. Siccome però la politica fiscale agisce anche sull’offerta, attraverso le tasse e alcune spese (infrastrutture, educazione, etc.), da un punto di vista teorico è possibile usarla in modo da conciliare l’obiettivo del consolidamento con quello della crescita. Usando un approccio pragmatico, questa “conciliazione” può essere raggiunta anche sul piano pratico, come su questo Diario è stato argomentato sino alla nausea. Senza nascondere quello che già si sapeva e che questa crisi ha confermato circa gli effetti della politica fiscale: è proprio quando le condizioni avverse spingono i tassi d’interesse verso lo zero che lo stimolo fiscale diviene più efficace perché non produce l’effetto usuale di aumentare i tassi reali d’interesse spiazzando la spesa privata.

Di più su questi argomenti: