Leviatano

Così il fisco mortifica il buon contribuente

Elena Bonanni

La doppia tassa dell'incertezza fiscale. Uno studio quantifica il costo della giungla di adempimenti fiscali per le medie imprese.

Qualcuno direbbe "cornute e mazziate". Così si devono sentire le medie imprese italiane oneste che per stare dietro a tasse e balzelli vari si trovano a pagare non solo le tasse (giustamente dovute) ma anche il costo occulto di tutta una serie di carte e controlli messi in piedi dal sistema fiscale. Servono almeno 137 ore di lavoro in media all'anno, ossia 17 giorni di lavoro, per soddisfare tutti gli adempimenti tributari di carattere ordinario: oltre 37 ore per l'Iva, oltre 46 ore per Ires/Irap e oltre 56 ore per Iuc/Tasi/Imu.  Sono queste le cifre che emergono da una ricerca sui costi dell'incertezza fiscale per le imprese in Italia condotta dall'Ordine dei Dottori commercialisti e degli esperti contabili di Milano. "Per lo spesometro, per esempio, servono oltre 27 ore – ha detto Massimo Cremona, che ha curato la ricerca presentata oggi nell'aula magna dell'Università Bocconi – e si ritiene che il risultato ottenuto, anche in termini di benefici per l'Agenzia delle Entrate, sia probabilmente sproporzionato rispetto ai costi sopportati dal contribuente e dalla stessa Agenzia per la fase di controllo dell'adempimento medesimo". Per non parlare dei costi connessi all'attività fiscale straordinaria. Per intenderci, le attività relative per esempio ad Iva e Ires/Irap in caso di fusioni, scissioni o la disciplina relativa ai costi sostenuti con i Paesi black list (ossia quei Paesi a fiscalità privilegiata, come Svizzera e Lussemburgo, per i quali in Italia vige l’obbligo di comunicazione di tutte le operazioni intercorse con gli operatori lì fiscalmente domiciliati).

 

Il rapporto tra imprese e fisco è gravato dal fattore "incertezza", generata soprattutto dalle variazioni frequenti della normativa, dalla mancanza di chiarezza della norma e dalla carenza di coerenza e univocità delle decisioni giurisprudenziali. Che generano altri costi. Una su cinque delle società assistite dai professionisti coinvolti nell'indagine è stata contattata dall'agenzia delle entrate per verifiche, ispezioni, controlli documentali e oltre metà di queste ha subìto rilievi a causa dell'incertezza fiscale.

 

"Il disagio – ha spiegato Cremona – è dovuto al fatto di instaurare una serie di costi per avere una certezza fiscale e non riuscire ad averla. Il problema  è pagare il giusto ed essere tranquilli che quanto si doveva pagare si è pagato".

 

Un paradosso che emerge con forza anche nel caso delle grandi imprese: le società intendono essere "conformi" a quanto richiede il fisco piuttosto che elaborare pianificazioni fiscali aggressive ma per farlo si trovano a sostenere costi "non-normali" legati all'incertezza tributaria. In altre parole, chi è virtuoso si trova a pagare una tassa occulta. O almeno questo è il quadro degli umori dei manager delle grandi imprese dipinto da una seconda ricerca elaborata dagli esperti della Bocconi e dall'Ordine dei Commercialisti di Milano e presentata sempre oggi in Bocconi. "Non è possibile eliminare l'incertezza fiscale - ha detto Carlo Garbarino,  docente della Bocconi e responsabile dell'Osservatorio fiscale e contabile dell'ateneo milanese, mecca dell'imprenditoria e della finanza italiane - ma bisogna distinguere quello che è un livello fisiologico e inevitabile da uno patologico e quindi evitabile".

 

I commercialisti, ovviamente, si sono fatti quattro conti: ciascun professionista dedica oltre 38 giorni allo studio di soluzioni che tranquillizzino il cliente nel suo rapporto con l'Erario e meno del 25 per cento delle imprese è in grado di remunerare il professionista per l'attività di riduzione dell'incertezza fiscale.

 

Ma il conto è salato soprattutto per la competitività del paese. Sono queste le cifre sul tavolo dei manager che devono decidere se sbarcare in Italia o meno. O se restare. Che si riflettono nei rapporti della competitività internazionale  che da tempo ormai ci vedono in fondo alla classifica. Nell'ultimo rapporto annuale Doing Business elaborato dalla Banca Mondiale l'Italia si è classificata cinquantaseiesima (su 189 Paesi) vicino a Bahrein, al Rwanda e all'Armenia e perdendo quattro posizioni rispetto all'anno prima.

 

"Oggi stiamo assistendo a patologie che non possono più esistere. Se investiamo in un nuovo macchinario, per esempio, diventa una scusa per toccare la rendita catastale", ha lamentato nella tavola rotonda in Bocconi Andrea Bolla, presidente del Comitato tecnico per il Fisco di Confindustria. Si tratta della famosa "Imu sugli imbullonati": alcuni macchinari entrano nella determinazione della rendita catastale e così le imprese subiscono un aumento della base imponibile su cui si paga l'Imu e in prospettiva la "local tax". Un paradosso su cui lo stesso viceministro dell'Economia Enrico Morando ha assicurato che il Governo interverrà.

 

[**Video_box_2**]Dalla procura di Milano è però arrivata una critica alla platea di professionisti "stremati dai controlli". "La complicazione del sistema deriva dall'evasione fiscale – ha voluto far notare il procuratore aggiunto Francesco Greco nella tavola rotonda – se per far rispettare un principio devo mettere 100 norme è chiaro che il sistema diventa complicato. Rendiamoci conto che la disonestà costa e che anche cose legittime finiscono nei controlli perché non ci si fida più. Non si va da nessuna parte con questo livello di evasione e di esportazione di capitali". Un costo della disonestà che dovrebbe essere aggiunto che ai 93 miliardi di cui si parla per l'evasione fiscale.

 

"Chi paga correttamente le imposte è vero è penalizzato a causa dell'evasione fiscale – ha commentato Cremona in un colloquio con il Foglio a margine del convegno – i costi per i controlli ricadono sugli onesti. Noi vorremmo che in controlli fossero fatti su chi evade e non è detto sia la media impresa, che significa togliere una serie di adempimenti che sono costosi come per esempio lo spesometro o le black list che non sono gli strumenti utili per scovare l'evasione. E usare gli strumenti che già ci sono, come i controlli sui conti correnti e la revisione del catasto che non gravano ulteriormente sui contribuenti. Il problema è politico. Basta pensare che le immatricolazioni delle auto che costano più di 100mila euro sono un multiplo dei cittadini che dichiarano più di 200 mila euro".

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