Stefano Fassina (foto LaPresse)

Dissento. La manovra di Renzi è recessiva e porterà l'Italia sul Titanic

Stefano Fassina

Il disegno di legge di stabilità in discussione alla Camera dei deputati è inadeguato a rianimare la nostra economia e a migliorare l’occupazione, dopo una caduta del pil di quasi 10 punti percentuali negli ultimi 7 anni e un triennio ininterrotto di recessione.

Il disegno di legge di stabilità in discussione alla Camera dei deputati è inadeguato a rianimare la nostra economia e a migliorare l’occupazione, dopo una caduta del pil di quasi 10 punti percentuali negli ultimi 7 anni e un triennio ininterrotto di recessione. E’ inadeguato per il 2015 e impossibile, come il cubo di Escher, per gli anni successivi. Il segno macroeconomico, come rilevato con diplomazia da Banca d’Italia e Istat, è restrittivo per due ordini di motivi. Innanzitutto, perché il deficit programmato per il 2015 è inferiore a quello previsto per il 2014: il 2,6 per cento versus il 3 per cento del pil, dopo il cedimento alle richieste ottuse della Commissione europea. Certo, il fiscal stance è meno restrittivo di quanto implicato dal bilancio a legislazione vigente, cosiddetto “tendenziale”, e di quanto richiesto dal fiscal compact, rottamato dalla deflazione. Ma il “tendenziale” è un esercizio astratto e fuorviante. Ad esempio, esclude dal 2015 il bonus Irpef e le risorse per programmi ricorrenti e fondamentali (come la Cassa integrazione in Deroga, il 5 per mille, le missioni internazionali). Rispetto al 2014, sottrae almeno un punto percentuale di pil, ossia circa 17 miliardi, dalla disponibilità di famiglie e imprese. Ma famiglie e imprese definiscono i loro comportamenti di spesa e di investimento in riferimento alle loro condizioni effettive, non al “tendenziale” o agli assurdi obiettivi di Bruxelles. Nel 2015, a causa del bilancio pubblico perdono 6-7 miliardi di euro rispetto al 2014. L’effetto recessivo della manovra si aggrava a causa della sua composizione: come oramai acclarato, il moltiplicatore della spesa è di gran lunga maggiore del moltiplicatore delle entrate, anche nei casi di spesa considerata improduttiva (valutazione quanto mai arbitraria), poiché si tratta comunque di redditi di persone o di imprese. Nel medio periodo, in condizioni di domanda effettiva adeguata, la riallocazione delle risorse, da impieghi improduttivi verso utilizzi produttivi, ha effetti virtuosi. Ma nel breve-medio periodo, a causa della carenza di domanda, vale il contrario. Comunque, data la dimensione dei tagli previsti dal 2015 alla spesa corrente, viene inevitabilmente colpita spesa produttiva, ossia servizi sociali fondamentali: dalla sanità, al trasporto pubblico locale, agli asili nido, alle mense scolastiche all’assistenza e al diritto allo studio.

 

Nell’audizione alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, Piero Fassino, Daniele Bosone e Sergio Chiamparino, non sospettabili di anti-renzismo, hanno definito all’unisono “insostenibili” i tagli contenuti nel Ddl Stabilità per comuni, province e regioni. Per evitarli, almeno in parte, dovrebbero aumentare imposte, tasse e tariffe già elevatissime. Se fossero realizzati, peserebbero negativamente sull’economia reale in misura largamente superiore al sostegno atteso dalle riduzioni di imposte, peraltro limitato alla luce dell’innalzamento della tassazione del Tfr e del risparmio a fini previdenziali. In sostanza, i famosi 80 euro, accompagnati dai tagli al welfare, riducono il potere d’acquisto delle famiglie e lo fanno per di più in modo regressivo, poiché il bonus Irpef esclude chi più ne avrebbe bisogno, mentre I tagli colpiscono proprio questi ultimi in misura maggiore rispetto a altri segmenti sociali. Le valutazioni si aggravano allungando lo sguardo al 2016 e 2017 dove i numeri sono davvero fantasiosi, poiché sono previsti prima 20 e poi 30 miliardi di aumenti di Iva e accise o di ulteriori tagli di spesa. Attenzione: non sono “clausole di salvaguardia”, come si vorrebbe far passare. Non svolgono funzione di supplenza in caso di malfunzionamento di misure primarie. Sono esse stesse misure primarie. In sintesi, il disegno di legge di stabilità del governo Renzi, come sottolinea Giorgio La Malfa, invece di agire a sostegno della variabile decisiva ai fini della ripresa, ossia la domanda effettiva, è concentrato sull’offerta, in linea con il paradigma neo-liberista dominante nell’euro-zona. La celebrata “sinistra finalmente moderna”, orientata e coperta dagli interessi più forti e dai media a loro seguito, propone come innovative ricette pre-keynesiane. Blairiana fuori tempo massimo, punta su un’impennata di investimenti privati affidati alla ritrovata “fiducia” degli “animal spirits” imprenditoriali, liberati dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, dall’Irap sul lavoro a tempo indeterminato e dalla contribuzione sociale per i neo-assunti a contratto standard.

 

Che cosa si sarebbe dovuto fare? In primo luogo, si sarebbe dovuta impostare la presidenza dell’Unione europea all’insegna di un’operazione verità. Il punto politico non era e non è la flessibilità nell’applicazione delle regole date, da scambiare con interventi di ulteriore precarizzazione e svalutazione del lavoro. La flessibilità arrivava in ogni caso: non per generosa concessione, ma come inevitabile conseguenza della drammatica situazione e delle prospettive dell’euro-zona. Riforme strutturali progressive vanno portate avanti, ma senza subalternità culturale, come invece avviene per la Delega Lavoro. L’ operazione verità avrebbe dovuto evidenziare che la rotta di politica economica dell’euro-zona è insostenibile. Avremmo dovuto mettere sul tavolo non i pugni o le battute, ma l’analisi oramai condivisa anche da un fiume di pentiti economisti mainstream: senza radicali correzioni, il Titanic Europa va al naufragio. Sono patetici gli allarmi lanciati negli ultimi giorni dall’Ocse o dalla Bce, come se la deflazione fosse un temporale fuori stagione e non la prevedibile e prevista conseguenza della svalutazione del lavoro, caposaldo del mercantilismo liberista dominante nelle ricette dell’euro-zona. Le correzioni prioritarie sono note e urgenti: dal quantitative easing a un meccanismo di gestione dei debiti pubblici insostenibili (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, come minimo), all’innalzamento delle retribuzioni e della domanda interna nei paesi in surplus commerciale; dalla golden rule per gli investimenti produttivi, all’introduzione di standard sociali e ambientali per il trade extra-Ue, anche nel pericoloso Ttip (Trattato transatlantico di scambi e investimenti), alla regolazione dei movimenti di capitali speculativi. L’Italia avrebbe dovuto far venire fuori in modo inequivocabile le posizioni di ciascun governo e, di fronte a insuperabili divergenze politiche, indicare l’unica strada possibile per evitare il naufragio: il superamento cooperativo dell’euro. Ossia, una dis-integrazione ordinata verso uno degli approdi possibili: dal ripristino delle monete nazionali, a monete condivise da gruppi di Paesi omogenei, fino ai “due euro” presentati negli interessanti articoli di Marco Valerio Lo Prete. Invece, la nostra presidenza della Ue ha girato a vuoto per fermarsi a uno 0,2 per cento di sconto sull’aggiustamento strutturale, nonostante il capitale politico conquistato nelle elezioni del 25 maggio scorso. In linea con l’operazione verità a Bruxelles, il governo avrebbe dovuto impostare una legge di stabilità davvero espansiva.

 

Carlo De Benedetti, su queste pagine, ha proposto un ampio superamento del 3% nel rapporto deficit pil. Proposta analoga, sebbene di portata più contenuta, nei mesi scorsi, hanno fatto Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera. Sono proposte che puntano, nel breve periodo, a dare ossigeno all’economia, ma poggiano su una prospettiva di tagli al welfare così ampi e regressivi da inficiare gli attesi effetti positivi congiunturali. Curiosamente, i seguaci del paradigma neo-classico dimenticano l’equivalenza ricardiana a loro così cara. In un quadro realistico, il governo avrebbe dovuto definire obiettivi programmatici per il triennio superiori di un punto percentuale di Pil a quanto definito nella Nota di aggiornamento al Def del 30 Settembre scorso. In altri termini, superare il 3 per cento nel rapporto indebitamento Pil nel 2015 per poi tornare, secondo le previsioni ufficiali di finanza pubblica, sotto tale soglia dal 2016. Le risorse aggiuntive, di carattere prevalentemente una tantum, avrebbero dovuto sostenere la domanda, in particolare investimenti nell’edilizia e nella messa in sicurezza del territorio, attività a alta intensità di lavoro e basso impatto sulle importazioni. Insieme, si sarebbe dovuto potenziare il sostegno all’inclusione attiva, strumento anti-povertà ancora confinato a una dozzina di città. Si sarebbero dovuti prevedere interventi più incisivi sulla grande evasione fiscale, senza infierire sull’evasione di sopravvivenza, poiché è l’evasione la variabile patologica dei nostri bilanci pubblici, non la spesa corrente che è, in rapporto al Pil, tra le più basse dell’euro-zona e in significativa diminuzione in termini reali e finanche nominali (si legga la memoria lasciata dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio nell’audizione del 3 Novembre scorso).

 

Si sarebbe dovuta, infine, approfondire la spending review per riqualificare e riallocare le risorse su programmi drammaticamente svuotati negli ultimi anni (scuola, trasporto pubblico locale, politiche sociali), invece che per fare cassa senza alcuna riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Come si può ora correggere il ddl Stabilità, senza purtroppo poterne recuperare il segno espansivo, data l’approvazione dei saldi di bilancio? In una logica emendativa inevitabilmente minimale, insieme a altri deputati del Pd, abbiamo proposto interventi per attenuare le iniquità, sostenere le micro e piccole imprese e le partite iva senza ordini professionali, innalzare investimenti innovativi nelle imprese, utilizzare i proventi delle privatizzazioni per la politica industriale, arginare la desertificazione produttiva nel Mezzogiorno e reperire le risorse per la riforma degli ammortizzatori sociali per gli “outsiders”, promessa decisiva per la Delega Lavoro, ma dimenticata dal governo. Insomma, lungo una rotta alternativa l’Italia potrebbe farcela. Ma a rimorchio del Titanic Europa, il ddl Stabilità di segno elettorale e avventurista porta a un 2015 di stagnazione e dell’occupazione e di aumento del debito. Ad aprile, la sentenza nel Def. Per ora, scenari da gufi.

 

Stefano Fassina, deputato Pd, ex viceministro dell’Economia

 

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