Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel palazzo di Ak Saray, inaugurato pochi giorni fa. L’edificio ha mille stanze ed è costato oltre 600 milioni di dollari

A ciascuno la sua Versailles

Eugenio Cau

Un uomo a cavallo che attraversa il deserto. Un bambino su una nave, un motociclista su un sidecar, una donna su un treno, una in aereo, una in macchina. Nello spot realizzato questa estate per la campagna da presidente della Turchia di Erdogan, tutti hanno in mano una stella dorata avvolta in un panno di seta rossa.

Un uomo a cavallo che attraversa il deserto. Un bambino su una nave, un motociclista su un sidecar, una donna su un treno, una in aereo, una in macchina. Nello spot elettorale – toni epici, musica coinvolgente – realizzato questa estate per la campagna da presidente della Turchia di Recep Tayyip Erdogan, tutti hanno in mano una stella dorata avvolta in un panno di seta rossa. Arrivano davanti a un cancello, che è il cancello del palazzo presidenziale di Ankara, e pongono le loro stelle su un grande stemma. L’ultima stella, la più grande, la pone Erdogan, ed è quella che spalanca le porte del palazzo. Nello spot il palazzo non si vede, solo una lunga strada con una luce che brilla alla fine, perché Erdogan, al tempo primo ministro, nel palazzo presidenziale ancora ci doveva entrare. Poi ad agosto Erdogan ha stravinto le elezioni, è diventato presidente grazie a uno schema già usato dal russo Vladimir Putin (un suo fedele, l’ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, gli sta tenendo calda la poltrona da primo ministro per quando potrà recuperare la carica) e la settimana scorsa ha mostrato al mondo il palazzo che stava dietro al cancello. Si chiama Ak Saray, palazzo bianco, ed è la più grande residenza ufficiale del mondo.

 

Il palazzo bianco di Ankara ha esattamente 1.000 stanze. Si estende su un’area di 50 acri e ha una superficie calpestabile di 289 mila metri quadrati. Il suo costo ufficiale è di 350 milioni di dollari, una cifra che da sola fa fumare di rabbia la borghesia colta di Istanbul. Figurarsi quando martedì il ministro delle Finanze ha rivelato che in realtà il palazzo bianco è costato 615 milioni. Comprende una pista aerea per il jet presidenziale appena inaugurato, un Airbus 330-200 personalizzato in base alle richieste del presidente che da solo ha un costo stimato di 200 milioni, e un sistema di tunnel sotterranei. Dentro e attorno al palazzo sono stati installati i migliori dispositivi di sicurezza, così avanzati che mettono in ridicolo la Casa Bianca (che in quanto a sicurezza, di questi tempi, non se la passa bene). D’altronde, l’Ak Saray di Erdogan è 30 volte più grande della residenza di Barack Obama. A sentire il presidente, il palazzo bianco è ispirato all’architettura selgiuchida, all’antica dinastia che iniziò la colonizzazione dell’Anatolia. Erdogan ha contribuito a disegnare il progetto (“Questo pover’uomo ha dato una gran mano”, ha detto di se stesso), e il risultato finale, più che ricordare l’architettura dell’antica Anatolia, è un guazzabuglio di stili, con graniti verdi che nemmeno il palazzo dell’Onu e bagni con la carta da parati di seta, colonne così fitte da coprire le finestre e alberi piantati al coperto, nella gigantesca hall. Sono costati quasi 4.000 dollari l’uno e si dice che siano già tutti morti.

 

Ci sono molti indizi che fanno pensare che il palazzo bianco sia molto più di una semplice residenza presidenziale. Il suo nome, Ak Saray, è sospettosamente simile al nome del partito islamico di Erdogan, Ak Party. Soprattutto, il palazzo è stato pensato per essere proprietà esclusiva – e duratura, se tutti i piani vanno in porto – del presidente. Quando nel 2011 iniziarono i lavori, dice il magazine Al Monitor, il palazzo era definito “edificio a servizio del primo ministro”. Era la carica che Erdogan ricopriva al tempo. Tre anni dopo, solo quando divenne certo che Erdogan si sarebbe candidato come presidente e solo quando ci furono abbastanza probabilità di vincere le elezioni, la destinazione d’uso dell’edificio fu cambiata in “palazzo presidenziale”. La carica di presidente è per lo più onorifica in Turchia, e un palazzo di mille stanze ne ha circa 950 di troppo per i modesti incarichi del presidente, ma Erdogan ha fatto intendere che espanderà e moltiplicherà i suoi poteri – già adesso non ha mai smesso di comportarsi come l’uomo forte del paese, mettendo in ombra il premier Davutoglu in tutte le circostanze. Fa parte del suo progetto di “Nuova Turchia”, uno slogan lanciato questa estate per definire il futuro che Erdogan ha in mente per il paese – centralità nel Mediterraneo, gloria per la nazione e più potere per sé. Fa parte di questo progetto una nuova serie di costruzioni pubbliche, tra cui una nuova residenza a Istanbul, costruita sopra la reggia dell’ultimo sultano ottomano, e una moschea gigantesca, tanto grande che “potrà essere vista da ogni parte della città”. Anche il palazzo bianco è costruito in un luogo di alto valore simbolico: il gigantesco parco fatto costruire da Atatürk, il padre della patria, per diventare un laboratorio di tecniche agricole avanzate. Da vent’anni il parco è diventato riserva naturale ed è vietato costruirci dentro. Quando sono iniziati i lavori, e gli alberi di Atatürk hanno iniziato a essere tagliati – è ironico: due estati fa i ragazzi di piazza Taksim inscenarono una rivolta per un parco infinitamente più piccolo –, praticamente tutti i tribunali del sistema giudiziario turco emisero sentenze contro la costruzione del palazzo. Erdogan li ignorò. “Se hanno il potere e il coraggio, che vengano a buttare giù il palazzo”, disse. “Non possono fermarci. Io inaugurerò questo palazzo, mi ci trasferirò dentro e lo userò”.

 

Il palazzo bianco di Erdogan è un’eccezione. Questo tipo di residenze di solito sono il sintomo della megalomania di un autocrate, e la Turchia è una democrazia. Ma molti indicano l’Ak Saray come uno dei sintomi della discesa della Turchia verso un governo più autoritario. Erdogan è al potere ininterrottamente da 11 anni, e non ha mai fatto mistero del fatto che, saltando di carica in carica, intende rimanerci fino al 2023, quando cadrà il centesimo anniversario della fondazione della Repubblica turca.

 

C’è sempre stato un rapporto tra architettura e potere. Anzi, secondo Deyan Sudjic, direttore del Design Museum di Londra che sul tema ha pubblicato un libro nel 2012, quello con il potere è l’unico rapporto a disposizione di un architetto: “A dispetto di una certa recente retorica che ipocritamente rintraccia nel dovere di servire la comunità lo scopo ultimo dell’architettura”, scrive Sudjic, “in ogni cultura, per poter realizzare le proprie creazioni, gli architetti hanno dovuto stabilire un rapporto con i ricchi e i potenti. Nessun altro ha le risorse per costruire”.

 

I palazzi imperiali e mastodontici, però, hanno una storia a sé. Il Ventesimo e il Ventunesimo secolo hanno reso chiaro che questi si legano a un potere particolare, quello delle dittature e dei governi autoritari. “La grande residenza dell’autocrate è incompatibile con i tempi della politica democratica”, dice al Foglio Stefano Boeri, architetto e urbanista. “C’è un problema di durata del potere, un governante considera la possibilità di costruire un palazzo monumentale solo quando è convinto che il suo dominio avrà una lunga durata”. Questi grandi palazzi, “in cui è quasi come se il corpo del sovrano trovasse una sua espressione in architettura, sono fenomeni ormai limitati al dispotismo. E a dirla tutta, sono una delle forme più stanche di rappresentazione del potere, e anche una delle più ingenue. Oggi ci sono altri modi per rappresentare il potere attraverso l’architettura, dal recupero dell’identità di alcuni monumenti all’organizzazione di grandi eventi”.

 

Non è più il tempo di Versailles, e Antonio Paolucci, storico dell’arte e direttore dei Musei Vaticani, parla al Foglio di “democratizzazione del potere”. “Per rappresentare in maniera plastica cosa è cambiato dai tempi di Versailles a oggi”, dice Paolucci, “basti dire che il Papa di Roma ha rinunciato alla sua residenza di Castel Gandolfo. Papa Francesco ha detto che non ci avrebbe abitato, e l’ha fatta aprire ai visitatori”. Non è una questione di perdita d’autorità, né di un potere che si desacralizza: “Si può avere un potere grandioso anche rinunciando ai suoi simboli plastici. Il potere oggi funziona più se ci si comporta come Francesco che come Luigi XIV”. Ci sono altri simboli, e un esempio è la Casa Bianca: “La democrazia degli Stati Uniti ha prodotto un edificio di gusto palladiano che però ha le misure, le proporzioni e l’aspetto di una villa borghese”.

 

In una villa quasi borghese, il palazzo della Zarzuela di Madrid, si sono ritirati anche i reali spagnoli dopo la caduta di Francisco Franco. Il dittatore viveva nel magnifico palazzo del Pardo, e re Juan Carlos aveva a disposizione anche il Palazzo reale spagnolo dove avevano vissuto tutti i suoi avi. Scelse la Zarzuela, residenza tutto sommato modesta, per dimostrare che i tempi erano cambiati.

 

Ma la storia ha le sue “derive resistenti”, ci dice Paolucci, che spariscono e poi riemergono come fiumi carsici. Così, anche nel tempo del potere democratico, i palazzi di tipo imperiale tornano ad avere una funzione. “La Turchia sta gradualmente recuperando la sua funzione califfale e sultaniale di potenza”, dice Paolucci. “Gli ottomani stanno tornando, come sta tornando l’autocrazia russa”. E se Vladimir Putin può contare su una eccezionale eredità imperiale, Erdogan ha bisogno di un palazzo che lo rappresenti. Ma anche così la reggia di Versailles, costruita dai migliori architetti del tempo e pensata come prigione dorata per la riottosa nobiltà francese, resta lontana. “Versailles aveva una funzione anche autorappresentativa”, dice Boeri, “ma era un pezzo di città, un luogo con una funzione civica, dove erano praticati l’arte e il mecenatismo. I palazzi del potere di questo secolo sono una forma di rappresentazione molto meno nobile, meno colta, meno complessa”. “Il cattivo gusto dell’autocrate moderno è una costante”, dice Paolucci. “Pietro il grande e Luigi XIV sapevano scegliere i migliori artisti del tempo, mentre tra gli autocrati moderni, a livello architettonico, forse l’unico che si salva è Mussolini”.

 

[**Video_box_2**]La monumentalità ottusa dell’autocrate moderno è rappresentata perfettamente dal “Palazzo del popolo” di Bucarest, la residenza del dittatore della Romania Nicolae Ceausescu. Pachidermico ed enfatico, giudicato con orrore da tutti gli architetti del mondo, il “Palazzo del popolo” richiese la demolizione di tre quartieri di Bucarest (27 tra chiese e sinagoghe furono abbattute) e lo sfratto (con due giorni di tempo per lasciare la propria casa) di 40 mila persone. Un milione di uomini lavorò al progetto, di giorno e di notte non c’erano mai meno di 20 mila persone nel cantiere e moltissimi morirono durante i lavori. Due intere montagne furono spianate per ottenere i marmi per il palazzo, e intere foreste distrutte. Mentre tutta la Romania moriva di fame, il palazzo di Ceausescu da solo succhiava il 30 per cento del budget dello stato – e consumava in tre giorni l’elettricità che tutta Budapest consumava in 24. Il Palazzo del popolo”, che oggi è la sede del Parlamento, divenne il simbolo non del potere di Ceausescu, ma del suo delirio sanguinario. Il dittatore e sua moglie fecero appena in tempo a vedere la prima stanza completata. La visitarono nel novembre del 1989, un mese dopo furono fucilati in diretta televisiva.

 

Il senso della monumentalità era molto forte anche in Saddam Hussein, il dittatore iracheno. “Saddam Hussein”, scrive Deyan Sudjic, “è stato un entusiastico protettore dell’architettura. (…) Non ha mai nutrito preferenze per qualche stile architettonico, e ciò nonostante ha imparato istintivamente a usare l’architettura come mezzo per glorificare se stesso e il proprio regime, e intimidire gli oppositori”. Nel 1982 fece costruire il suo palazzo nell’antica città di Babilonia sui resti di quello dell’antico re Nebuchadnezzar II, che 2.500 anni prima aveva conquistato Gerusalemme. Fece distruggere i resti archeologici, uno dei più grandi vandalismi architettonici di tutti i tempi, e ne fece costruire una replica in marmo e cemento. Nei bagni, i rubinetti erano placcati d’oro. Ma i palazzi di Saddam, come tutte le regge degli autocrati detronizzati, mostrano anche la piccolezza del dittatore. Sono celebri i murales erotici che i soldati americani trovarono nel 2003 quando entrarono nel palazzo presidenziale di Baghdad, abbandonato e saccheggiato. Nel palazzo di Gheddafi a Tripoli (anche se il rais libico perseguiva un altro genere di propaganda e durante i viaggi all’estero alloggiava all’aperto sotto una tenda beduina) furono trovati giochi per bambini, filmati pornografici e un poster a grandezza naturale di un attore di Hollywood molto amato dalle ragazzine.

 

Non sempre i palazzi del potere devono avere una dimensione pubblica. La monumentalizzazione del proprio spazio privato è un fenomeno quasi più interessante dell’esposizione di un gigantesco palazzo imperiale. Un esempio è il grande palazzo che Hafez el Assad, padre dell’attuale presidente siriano Bashar, fece costruire per sé a Damasco. Hafez assoldò nella seconda metà degli anni Settanta l’architetto giapponese Kenzo Tange, che produsse un edificio dalle linee moderne. Ma l’architetto, probabilmente per dissensi con il dittatore, rassegnò le sue dimissioni prima dell’inizio dei lavori, e gli ingegneri che portarono avanti la costruzione rovinarono il progetto. “E’ come entrare nella Città di smeraldo del mago di Oz, ma rimodellata dai nordcoreani”, ha detto un giornalista americano al Guardian.

 

Poi ci sono i fallimenti. Quando i manifestanti filoeuropeisti di Kiev sono entrati lo scorso febbraio nella residenza abbandonata in tutta fretta dal presidente Yanukovich, per molti versi fu chiara la ragione della fine triste del regime pro russo del presidente. Il palazzo di Yanukovich, con la sua mobilia di cattivo gusto (l’ammucchiata kitsch di stili, italiano nordico gotico slavo, è stata ribattezzata ironicamente “Donetsk rococò”), le improbabili rifiniture marmoree, i bidet con i piedini in oro, le sedie imbottite e lo zoo con gli struzzi, era ricchissima, sfarzosa, ma non era la residenza di un grande leader, di un autocrate assolutista. Non era il cuore pulsante del potere del regime, e i manifestanti non la distrussero come avevano fatto gli iracheni con Saddam perché non era un simbolo di oppressione. Di corruzione, sì, e di cattivo gusto, moltissimo. Ma la residenza di Yanukovich era la casa di uno dei tanti oligarchi che popolano il panorama dell’est post sovietico, e oggi, gli ex manifestanti saliti al potere, in quella casa ci fanno le visite guidate. Il New York Times ha scritto a settembre che a oltre sei mesi dalla caduta di Yanukovich quello che è successo al suo palazzo è un simbolo di una rivoluzione che si è impantanata. La residenza dovrebbe passare sotto il controllo del governo di Kiev, ma mille pastoie burocratiche impediscono il cambio di proprietà. Yanukovich aveva difeso bene i suoi beni e la villa è affidata a una società terza che è difficile da espropriare. Così nella tenuta si è installato Denys Tarachkotelyk, capo di una piccola azienda di trasporti. Tarachkotelyk è stato tra i primi ad arrivare sul posto la notte in cui Yanukovich fuggì. Tarachkotelyk radunò alcuni scagnozzi e divenne il satrapo della tenuta. Tiene lontani gli sciacalli e incassa i soldi dei biglietti delle visite turistiche, e ogni volta che il governo prova a riprendersi la villa lui e i 145 uomini dello “staff” ci si asserragliano dentro. “Vecchi banditi sono stati rimpiazzati da nuovi banditi”, ha detto una delle guide turistiche. Ma appunto, banditi.

 

Al tempo del potere democratico, i palazzi del potere possono apparire come arnesi del passato. Stefano Boeri li giudica “anacronistici, a volte con una dimensione comica e ingenua. Sono la conferma di una certa ostinazione che sfocia in una perdita di lucidità, in un’autocelebrazione che insegue il sogno di garantirsi l’eternità”. Ma quel desiderio di eternità è lo stesso che mosse i faraoni. Le piramidi sono ancora lì. Non sarà lo stesso per il palazzo bianco di Erdogan. Ma “ogni tempo avrà i suoi Erdogan e i suoi Putin”, ci dice Paolucci.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.