Marine Le Pen, Matteo Salvini, Geert Wilders e Harald Vilimsky

Come si riorganizza la destra

Antonio Pilati

Cosa c’è dietro l’assalto dei partiti anti sistema nei quattro più grandi paesi europei (Germania, Regno Unito, Francia e Italia). Eurofollie, debolezze nazionali, élite impazzite. La teoria dei due euro.

Nei quattro maggiori paesi dell’Unione europea si sta riassestando, con dinamiche spesso parallele, tutto il versante di centrodestra del sistema politico. In particolare è in tensione – e sta cambiando – il rapporto tra i partiti di governo, ossia i partiti-sistema attorno a cui gravita (o gravitava) l’assetto politico nazionale, e i partiti radicali centrati sull’identità nazionale: le conseguenze si fanno sentire su larga scala e investono tutto lo spettro dei partiti. Da un lato Tory, gollisti, cristiano-democratici tedeschi (Cdu) – fin dalla nascita partiti-sistema – e anche Forza Italia, che lo è stata almeno nelle sue fasi di picco (2001 e, come Pdl, 2008); dall’altra Ukip, Front national, Alternative für Deutschland (AfD) e Lega nord, tutti in crescita nell’ultimo biennio, che paventano con toni sempre più preoccupati minacce (immigrati, euro) all’identità nazionale e ne drammatizzano la tutela. Il movimento ora in corso è innescato dai partiti radicali che colgono un vasto mutamento dell’opinione pubblica e trovano impeto nel disagio sociale. In contemporanea con l’aumento dei consensi rivedono e precisano il proprio discorso: affermano una volontà di guida del proprio paese, che affianca e completa la rappresentazione della protesta, estendono il raggio dell’azione al di là degli originari recinti di pubblico, mostrano nei gruppi dirigenti figure contigue all’establishment (anche qualche intellettuale), esprimono una certa attenzione per la politica internazionale. Marine Le Pen emargina il padre e cambia nome al partito per staccarsi da un passato troppo caratterizzato, conquista qualche enarca, ripulisce il proprio racconto dagli spunti razzisti e antisemiti (sui quali infatti cerca di lucrare il neonato partito della star Dieudonné). La Lega nord si ridisegna in chiave nazionale, mette in primo piano il nesso con l’Europa, lascia da parte un certo carico mitologico. Il partito di Farage ruba deputati a Cameron, rielabora con più enfasi e determinazione i temi della destra Tory, punta sulla difesa (aggiornata) della tradizione britannica. Alternative für Deutschland è un caso diverso: alle elezioni politiche del 2013 fa la sua prima prova e assume come leitmotiv il tema della moneta (ritorno al marco); non ha scorie derivate da identità prevaricanti o provocatorie, anzi prosciuga – oltre ai liberali – anche i partitini di nostalgia nazista; rappresenta porzioni, per ora minoritarie, del sistema imprenditoriale e segue un’ideologia di ortodossia liberale che confligge con il pragmatismo merkeliano ancorato al vantaggio immediato. Di fatto AfD è un partito con impronta e ambizioni mainstream, da perno del sistema, quale forse gli altri partiti radicali vorrebbero porsi al termine della propria evoluzione. 

 

I partiti-sistema patiscono, per contro, i guai derivanti dallo sbandamento della costruzione europea e dalla crisi che vi è connessa, scontano il favore – più o meno caldo – riservato per anni all’idea dell’integrazione e il loro movimento consiste soprattutto nel ripiegare: costretti sulla difensiva, sbandano tra le divisioni interne o seguono tattiche, spesso confuse, del giorno per giorno. L’Ump, il partito gollista, è quello forse messo peggio: la Germania, l’antagonista secolare, incassa dall’ultimo ventennio, oltre alla riunificazione, anche il comando economico e istituzionale dell’Europa, mentre la Francia si vede costretta, per carenze di strategia nazionale e a causa di un’economia in costante restrizione, a farsi bella di un ruolo ancillare e dipendente da oltre Reno. L’umiliazione politica, acuita dalla crisi economica, si scarica sul partito che ha fondato e retto (con l’eccezione degli anni di Mitterrand) la Quinta Repubblica e che alla fine, con Chirac e Sarkozy, ha incorporato l’attuale idea della costruzione europea. Con il fallimento di Sarkozy, sigillato dal disastro della guerra di Libia, sbanda e precipita il simulacro del primato nella politica europea, alimentato per tanto tempo con gli artifici della force de frappe, del rapporto privilegiato con l’est e del motore franco-tedesco: a un tratto gli errori strategici di Parigi, da Maastricht alla Libia, cumulandosi a quasi un secolo di sconfitte militari, da Sedan a Suez e Algeri, vengono a saldo e Marine Le Pen è l’esattore che riscuote dalle sbandate élite del partito con cui De Gaulle aveva reinventato un orizzonte politico per la Francia.

 

In Gran Bretagna Cameron revisiona la politica europea dei Tory con una sterzata verso l’ispirazione secessionista che Ukip nutre dall’esordio (il referendum del 2017; la battaglia contro le risorse da girare a Bruxelles) e tenta di rianimare l’orgoglio britannico nei vari teatri bellici; tuttavia, nonostante i vantaggi di una economia tutelata dalla sovranità monetaria, è in difesa su molti fronti, anche interni, e perde nelle suppletive.

 

Forza Italia, in difficoltà per molteplici ragioni endogene e limata dall’iniziativa vitalista del governo, soffre l’aggressiva energia anti euro della Lega, di cui peraltro condivide vari motivi, e cerca tuttora un equilibrio tematico (fa parte del Partito popolare europeo e ogni tanto se ne ricorda).

 

La Cdu tedesca è il partito-sistema più in salute, non diversamente dalla Germania fra gli stati europei: come l’Ump assorbe in sé gli effetti negativi che finora la congiuntura politica e l’assetto preso dall’Ue hanno portato alla Francia, così – in modo speculare – il partito di Angela Merkel riflette a proprio vantaggio gli utili che l’attuale impianto dell’euro genera per la Germania. La prospettiva però sta cambiando e il quadro generale peggiora anche a Berlino: affiorano con evidenza le difficoltà strutturali dell’euro, settori dell’economia (risparmiatori e assicurazioni logorati dai bassi tassi di interesse, esportatori focalizzati sull’Ue) accumulano svantaggi, l’inquietudine comincia a diffondersi. Il tatticismo dell’attuale leadership rischia per il futuro di essere meno rassicurante e soluzioni diverse, come quelle sviluppate dall’AfD, rischiano di rendersi attraenti.

 

L’euro è da un quarto di secolo un enorme investimento – culturale, tecnico, politico – delle classi dirigenti europee. Ha costituito il punto di riferimento e il discrimine degli assetti politici. Tolta la Gran Bretagna, è diventato senso comune per tutti i partiti di governo. La crisi che dopo sette anni non passa e si inasprisce lo mette in questione: a differenza di quanto accade nelle altre grandi aree economiche, in Europa la crescita non si vede più e l’attuale mix di stagnazione e deflazione rischia di tenerci compagnia a lungo (in Giappone la trappola è durata vent’anni). L’euro e in generale un’integrazione mal disegnata, che mette al primo posto le garanzie date al debito e con ciò incentiva egoismi nazionali capaci di accumulare vantaggi pratici a scapito del vicino (alla lunga ciò fa egemonia), separano i popoli dall’idea dell’unità d’Europa costruita con pazienza da oltre 60 anni. Il criterio dell’interesse nazionale, l’utilità egoistica assunta fuori da contesti cooperativi, balza in primo piano, diventa guida esplicita: il pericolo liquida l’idealismo.

 

Non solo economia. Il caso Ucraina

 

Oltre alla caduta delle aspettative in campo economico altri due fattori amplificano lo sbandamento. Anzitutto la Germania: con la crisi la bilancia del potere si è spostata verso Berlino che, facendosi custode delle norme Ue, imposta le politiche europee e se ne avvantaggia (banche, cambio, afflusso di capitali) su larga scala. A contrasto un gran numero di paesi, soprattutto del versante mediterraneo, vede la propria economia e le condizioni di vita delle singole persone avvitarsi in una drammatica spirale al ribasso.

 

[**Video_box_2**]In secondo luogo l’ambito internazionale: sempre più la debolezza politica costringe gli stati dell’Unione europea a condividere, come nel caso dell’Ucraina, strategie pensate da altri e nocive per gli interessi europei di lungo termine: il conflitto con la Russia ha, fra l’altro, l’effetto non secondario di mettere in difficoltà la Germania che, al riparo del suo rigido mercantilismo deflazionista, si scontra con gli Stati Uniti dediti invece a politiche di larga espansione monetaria.

 

Di fronte a uno scenario in cui la vita collettiva peggiora, pressoché ovunque si sfalda – quasi evapora – la legittimità di comando delle élite europee che hanno scommesso su una integrazione espansiva e su una apertura mondiale dei mercati senza troppi contraccolpi negativi. Il risentimento che alimenta l’espansione dei partiti radicali non è che la percezione collettiva di un potere che, essendo sempre meno riconosciuto, diventa solipsista, quindi costrittivo. Per i partiti-sistema, appoggiati alla legittimità dell’establishment, la visione europeista, che conteneva in sé una promessa di sviluppo costante, non è più un dato di fatto inevitabile, una certezza di prestigio, ma diventa un problema da risolvere: visioni diverse non sono più squalificate, vengono prese in considerazione, si trasformano in potenziali risorse.

 

La sfida dei partiti radicali nasce da qui: consiste nel conquistare porzioni di classe dirigente portando con sé, in modo congiunto, da un lato il sentimento di quella parte crescente di società che avverte solo i danni di una integrazione mal disegnata e d’altro lato un blocco di soluzioni non utopiche che indichi una via di uscita credibile, anche se anticonvenzionale. La teoria dei due euro, che comincia a riscuotere credito culturale, e di cui il Foglio ha scritto negli scorsi giorni, può essere un buon esempio. Il punto cruciale però non è solo tecnico: è soprattutto sociale e quindi politico. Il riassetto del versante di centrodestra nei maggiori sistemi politici d’Europa sarà vinto dalle forze che alla fine sapranno tenere insieme, in una sintesi attraente, il sentimento radicale di chi si percepisce estraneo alla figura attuale d’Europa, che fa pagare ai più deboli il prezzo della buona coscienza dei più forti, con la sensibilità più quieta e bilanciata di chi – classe media ma anche élite – non vuol rompere con un disegno di idee e valori ormai consolidato in sessant’anni di storia europea. E’ solo una grande capacità di sintesi che può rimettere in sesto le varie parti – avviate ormai su traiettorie centrifughe – dei sistemi politici europei.