Mario Draghi e il consiglio direttivo della Bce (foto LaPresse)

Cosa impedisce all'Europa di crescere

Alberto Brambilla

Chi o cosa impedisce all'Ue di crescere o almeno di fermare il declino? Le dichiarazioni rilasciate in queste ore dai protagonisti dell’economia globale, riuniti a Washington per gli annual meetings del Fondo monetario internazionale, offrono qualche spunto di riflessione.  

Roma. Chi o cosa impedisce all’Europa di crescere o almeno di fermare il declino? Le dichiarazioni rilasciate in queste ore dai protagonisti dell’economia globale, riuniti a Washington per gli annual meetings del Fondo monetario internazionale, offrono qualche spunto di riflessione.

 

Il direttore del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, ha le idee abbastanza chiare: bisogna permettere alla Banca centrale europea di fare come tutte le altre grandi banche centrali del mondo, Mario Draghi deve potere comprare titoli di stato come fanno la Federal Reserve e la Bank of Japan. Insomma espansione monetaria per scongiurare il rischio “non insignificante” della recessione in Eurozona (i “bookmaker” del Fmi danno il rischio recessione al 35-40 per cento). Quella di Lagarde è la stessa ricetta che ripetono con la stessa ossessione anche dall’Ocse: o bazooka o muerte.

 

Draghi finora ha messo in campo stimoli senza precedenti per portata e per creatività: parole anti panico per i mercati (“Faremo tutto il possibile... credetemi sarà abbastanza”), un programma di prestiti agevolati alle banche da mille miliardi, e da ultimo l’acquisto di titoli cartolarizzati dalle banche dell’Eurozona (gli Asset backed securities, Abs) per alleggerire i bilanci e convincerle a tornare a prestare. Quest’ultima mossa, recente, ha spiazzato i mercati: la Bce ha detto sì, ma non ha detto quanti Abs acquisterà; gli investitori volevano dettagli che Draghi non poteva concedere. Per le Borse insomma era troppo poco. Ma per qualcun altro il solo annuncio era fin troppo, quasi un oltraggio. E questo “chi” è sempre la stessa entità, lo stesso moloch, lo stesso blocco: quello tedesco.

 

Il ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble, da tempo spara a pallettoni sull’Eurotower (“Non sono contento del dibattito sugli Abs”), mentre il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, mette le mine nei corridoi (Draghi rischia di “diventare ostaggio della politica”). Oggi Schäuble nel suo ruolo di poliziotto cattivo di stanza a Berlino (in funzione di acchiappa voti dai simpatizzanti della Afd; sofisticato partito euroscettico in ascesa) è tornato a ripetere un ritornello consumato, e per certi versi indiscutibile: se Francia e Italia non fanno le riforme la crescita in Europa si vedrà col binocolo. Lo ripete spesso anche Draghi (la politica monetaria è monca senza riforme). Tuttavia il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, ha fatto notare al suo omologio tedesco che in Italia qualcosa si muove all’indomani della fiducia al Senato sulla riforma del lavoro; “un passaggio del Rubicone” secondo gli analisti della banca inglese, Barclays, sebbene sia necessario aspettare i dettagli nei decreti attuativi per valutarne la portata rivoluzionaria promessa. Padoan, insomma, non ci sta a fare la figura di Hollande, socialista irriformista di Francia che prega per un punto e mezzo di deficit in più (e maschera un amaro fallimento da ribellione contro la rigida Germania).

 

[**Video_box_2**]A dare a Matteo Renzi quel che è di Renzi ci ha pensato anche Draghi: la riforma del lavoro “non causerà licenziamenti di massa”, ha detto il banchiere romano. Ovvero: abolire l’articolo 18 e permettere licenziamenti per motivi economici con indennizzo monetario, e non più con reintegra per via giudiziaria, serve per assumere non per licenziare. E soprattutto servirà per assumere quando le imprese, si spera rinvigorite in futuro, potranno tornare a farlo. Draghi sembra avere messo in chiaro che il Jobs Act è una riforma pro-futuro.

 

E se c’è qualcuno che al futuro ci pensa poco, questi sono i tedeschi: oggi additano i paesi irriformisti (o supposti tali), ieri i paesi periferici coi conti ballerini (che dopo il passaggio della Troika hanno buone ragioni a non volere sentire parlare di flessibilità, ergo concessioni, ai francesi), ma pensano poco a investire in casa propria. “Dobbiamo dare priorità agli investimenti e lottare per portare più crescita”, ha detto Schäuble. Si vedrà se queste intenzioni resteranno sulla carta o verranno mantenute. D’altronde, con la produzione industriale e le esportazioni calanti, il rischio recessione è arrivato a lambire le birrerie di Monaco e cominciare a spendere per rilanciare la domanda interna deve essere una priorità per la Germania, l’unico paese dell’euro ad avere ampie possibilità di spesa senza la preoccupazione di incidere sui conti pubblici. L’ha fatto notare anche il Fondo monetario internazionale alla vigilia del summit di questi giorni (potrebbe investire fino allo 0,5 per cento del pil annuo in più per i prossimi quattro anni senza violare le regole di bilancio). Perché manca la crescita dunque? Un concorso di colpa, sicuramente. Tuttavia la Germania soffre di una certa miopia, e da tempo, non vede (o finge di non vedere) quanto si muove fuori dalla fortezza e non vede (o finge...) di non sapere quello che si dovrebbe accendere al suo interno. Il Fmi, la Bce, Parigi e Roma hanno chiesto alla cancelliera Angela Merkel di spendere di più per scongiurare la recessione e una spirale deflattiva alla giapponese. Ascolterà?

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.