Walter Veltroni (foto LaPresse)

Lei non sa chi sarei stato. Veltroni

Salvatore Merlo

Strasindaco di Roma, direttore dell’Unità, fondatore e segretario del Pd, trasformato da partito degli iscritti a partito degli elettori. E tanto altro, prima di Renzi. Walter poteva essere Obama, ha preferito Hollywood.

Ci sono uomini, ex segretari del Pd ed ex ministri, che subiscono i dolori della vita, le sconfitte, le crudeltà anche involontarie della politica, fino a soffrirne fisicamente, com’è accaduto a Pier Luigi Bersani, che è stato male e si è poi per fortuna ripreso, e ha infine acquistato lo sguardo dolce della sconfitta, quello dei nonni e dei vecchi zii cui si vuol bene, gli occhi remissivi che tuttavia sempre s’accompagnano all’alterno barbaglìo combattivo e dignitoso del reduce, del giovane che fu, dell’uomo d’apparato e del tempo glorioso delle Frattocchie: “Sarò leale con Renzi, ma rivendico la mia autonomia di pensiero”. Ci sono poi quelli che, ex presidenti del Consiglio e fondatori dell’Ulivo, pur di non votare le primarie, pur di non scegliere, si fanno ricoverare in ospedale, come Romano Prodi, dunque borbottano, come fossero lontani, eppure mai probabilmente sono stati così vicini, interessati, le orecchie tese al circo della politica che pure li esclude come vecchi trichechi dal branco: “Io non ve lo dico, non ve lo dico per chi tifo”.

 

Ci sono poi uomini, come Massimo D’Alema, fatti tutti di un’altra pasta, che invece tramutano il dispiacere in rancore, così si arrendono alla rottamazione ma solo per rottamare il rottamatore, e dunque del loro rancore finiscono per nutrirsi, ne fanno una forza che dà vigore, trasformano l’appassita brama in trama, ché i baffi del gatto non cadono mai: “Renzi leader? E’ come dire Briatore”. E ci sono infine uomini che spariscono come nulla fosse, e zitti zitti saltellano come donzelle felici, cambiano un po’ mestiere, s’eclissano e rifanno capolino altrove. Forse allegri, forse mesti e un po’ furbeschi, girano film su Enrico Berlinguer, vestono Venezia, cioè la città fondale d’ogni rievocazione romantica, da Hollywood Boulevard, e dunque incarnano la parte più graziosa e incerta della loro biografia di adolescenti attempati, si fanno finalmente americani come hanno sempre desiderato, e dunque celebrano le nozze di George Clooney sul Canal Grande. E insomma ci sono gli uomini della ditta, e poi c’è Walter Veltroni. Fuori dal giardino dei boy scout di Renzi, come dai giardinetti della vecchia nomenclatura. Un tempo fondava il Pd, pronunciava le carezzevoli parole di Kennedy e di Obama, esclamava “I care”, e poi “Yes we can”. Ora dice: “Vi dichiaro marito e moglie”.

 

[**Video_box_2**]Ricordano quelli che gli vogliono bene, come Walter Verini: “E’ uscito dal Parlamento con grande, rara dignità”. Mentre nella ditta, tra i baffuti forgiati dallo stampo dalemiano, loro che sono anche giovani ma pur sempre turchi, si alternano sorrisi di malizia, piccoli sprezzanti sberleffi. D’altra parte come in D’Alema anche nei suoi eredi l’intelligenza si sviluppa in funzione prevalentemente difensiva, come risorsa contro le incognite, quindi con l’inclinazione al sotterfugio e al paradosso. Dunque sibilano: “Dopo aver detto di non essere mai stato comunista, adesso dirà di non essere mai stato Veltroni. Nella sua eclissi c’è la sua antica e sempre sottovalutata furbizia. L’ambizione, appena occultata da uno studiato silenzio”. Eppure sapersi ritirare è una virtù, nell’Italia che non riesce mai a chiudere la storia di nessuno, che spenna le vicende di ciascun protagonista fino alla decomposizione, senza mai sigillare, finire, superare. E Veltroni, come D’Alema, è stato tutto. E persino più di D’Alema. Perché del vincitore Renzi, Veltroni, con le sue figurine della modernità, con le veltronate e con le veltronerie, ha rappresentato la prefigurazione: dunque uomo del destino e precursore dello stil novo, segretario dei Ds e fondatore del Pd, liquidatore di correnti, nel transito dal partito solido degli iscritti a quello vaporoso degli elettori, vicepremier e ministro della Cultura, romanziere, cinematografaro, strasindaco di Roma, direttore dell’Unità, artefice della vocazione maggioritaria, anche perdente di grandissimo successo alle elezioni del 2008, con quel 34 per cento di voti superato solo dal 40,8 di Renzi. Adesso si comporta come nulla fosse stato, come se di lui, ormai inveltronito, di lui che oggi avrebbe anche potuto vendemmiare con il renzismo di governo, adesso rimanesse soltanto la schiuma: un film e il gran matrimonio holywoodiano, un nuovo libro, celebrazioni e friccichi de luna. “Sogna, virgineo, il Quirinale”, sibilano i ragazzi baffuti. Chissà.

Di più su questi argomenti:
  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.