Il tempio di Takht-e-Bahi nella valle di Swat, in Pakistan

Noi in Pakistan prima dei talebani

Luca M. Olivieri

Esiste un angolo d’Asia dove l’Italia conduce ricerche archeologiche da sessanta anni. Si trova nel moderno Pakistan e si chiama Swat. La Missione Archeologica Italiana dell’allora IsMEO di Giuseppe Tucci ancora lavora nella valle.

Esiste un angolo d’Asia dove l’Italia conduce ricerche archeologiche da sessanta anni. Si trova nel moderno Pakistan e si chiama Swat. La Missione Archeologica Italiana dell’allora IsMEO di Giuseppe Tucci ancora lavora nella valle. In questi ultimi quattro anni, nel quadro di un progetto finanziato con lungimiranza dal programma di riconversione del debito Italia-Pakistan del nostro ministero degli Esteri. Lo Swat fu uno stato autonomo dal 1917 al 1969, e con questo – diplomazia d’altri tempi – Tucci negoziò nel 1955 l’apertura degli scavi archeologici. Lo “Yusufzai State of Swat” era stato fondato nel 1917 da Badshah Saheb. Questi pacificò la valle, abolì la rotazione del possesso delle terre e – seguìto poi dal figlio e successore – costruì scuole, ospedali, telegrafi e strade, trasformando lo Swat tribale nella “Svizzera d’oriente”. Badshah Saheb, non ha mai saputo l’inglese, né vestito altro che il suo cappotto centrasiatico a falde larghe, e trattato le cose dello stato con apparente ruvida semplicità.

 

Politicamente Badshah Saheb era però un abilissimo giocatore di scacchi. Il suo successore, Jahanzeb Miangul, fu quell’ultimo Wali dello Swat celebrato in un famoso e omonimo libro da Fredrik Barth (“The Last Wali of Swat”, 1985). Il Wali era un uomo raffinato, cosmopolita, sempre in elegantissimi completi inglesi e scarpe italiane, la bella testa fiera, la sigaretta in mano.

 

Eppure – e non è una leggenda – chiunque poteva incontrarlo ogni mattina, senza appuntamento, nel darbar ove amministrava la giustizia e gli affari dello stato. L’estate scorsa si è spento infine il figlio del Wali, Miangul Aurangzeb (ne ha scritto il Foglio nelle “Vite parallele” del 23 agosto), che come erede al trono portava il titolo di Waliahd. Aurangzeb era un grande amico degli archeologi italiani, di Domenico Faccenna in particolare, che come Giuseppe Tucci, amicissimo del Wali, era di casa “a palazzo” (una modesta residenza – i Miangul investivano i soldi dello Stato soprattutto in opere pubbliche). Comprendere come si sia potuto evolvere quel miracolo sociale che fu lo Stato dello Swat potrebbe aiutare a capire una terra dove, tra il 2009 e il 2010, per una decina di mesi, i talebani avevano creato un vero stato islamico. Questo “emirato” cercò in ogni modo di cancellare la memoria dei Miangul, e Aurangzeb – anziano – visse quei mesi lontano dallo Swat, a Islamabad. La storia degli Yusufzai, e dei Miangul, infatti, oscilla costantemente tra il superamento del tribalismo attraverso la dottrina sociale e una forte propensione al misticismo.

 

Il Badshah Saheb, fondatore dello Stato dello Swat, ha sempre creduto che l’inimicizia tra il grande imperatore moghul Akbar e gli Yusufzai dello Swat fosse da cercarsi nella adesione di questi ultimi al movimento roshanniyya. Bayazid Ansari, detto Pir-i Roshan (il “Santo della Luce”), predicava un islamismo eclettico, in cui era centrale il culto della Luce, di retaggio iranico. Pir-i Roshan era inviso al riformatore religioso, più che al sovrano.

 

Se semplicisticamente si potrebbe considerare il movimento roshanniyya, gli “Illuminati”, come un’eresia sciita, essa fu forse parte di quella corrente della teosofia iranico-islamica di cui ha scritto a lungo Henry Corbin. Corrente che non è scomparsa e che in altre forme ha segnato le scene del XX secolo nella provincia di Peshawar, e oltre. Dove Akbar non riuscì, poté però la fede. La predicazione del campione dell’islam sunnita Sayyid Ali Shah Tarmezi, detto Pir Baba, e del suo principale discepolo Abdur Rashid, detto Akhund Darwaza (la “Porta”), soprattutto diretta contro l’eresia roshanniyya, rappresenta l’inizio della storia del moderno Swat.

 

[**Video_box_2**]Intorno al 1794, nascerà nell’alto Swat Abdul Ghafur, capostipite dei Miangul, noto presso i britannici come l’Akhund dello Swat, colui che chiamò il jihad anti inglese ad Ambela. Tra gli Yusufzai è noto come Saidu Baba. Si tratta della terza figura di “inviato” ad apparire nella storia degli Yusufzai, dopo Pir i-Roshan e Pir Baba. Circondato da un folto seguito in vita, il suo mausoleo a Saidu Sharif, capitale dell’ex Stato dello Swat, è oggi onorato da 10 milioni di fedeli dal Sud Waziristan al Punjab. Miangul Aurangzeb, come primogenito maschio, oltre che essere principe ereditario dello Swat ne era l’erede spirituale. Con la figura di Saidu Baba, gli Yusufzai dello Swat trovano finalmente il raccordo tra le aspirazioni spirituali e la creazione della forma politica del loro organizzarsi come comunità. Il processo fu lento, ma se ne possono seguire con chiarezza le tappe, che sempre più veloci porteranno alla creazione di quel gioiello politico che fu lo “Yusufzai State of Swat” sotto la dinastia dei Miangul (ne ho parlato in “Swat, storia di una frontiera”, Isiao, 2009, da tempo fuori commercio ma scaricabile dal web).

 

Lo Swat fu un miracolo anche per l’archeologia. Come il Badshah Saheb aprì lo Swat ad Aurel Stein nel 1926, così il Wali lo aprì a Giuseppe Tucci nel 1955.

 

Di Tucci in Pakistan tanto si è detto. Recentemente è stato messo in luce un interessante retroscena legato al suo rapporto con lo psicoanalista junghiano Ernst Bernhard e con Giorgio Manganelli, e alla direzione dell’Istituto di cultura a Karachi (si veda la postfazione di Salvatore Silvano Nigro a “Cina e altri Orienti”, Adelphi 2013). Tanto ancora si potrebbe dire. Tucci in Pakistan era soprattutto Tucci nello Swat, l’antico Uddiyana, il più orientale lembo d’Asia da lui a suo tempo aperto alla ricerca archeologica italiana. Gli storiografi di Alessandro Magno e le fonti tibetane su Padmasambhava, il Guru Rimpoche che dallo Swat aveva portato il buddismo in Tibet, gli fecero da guida. Gli archeologi – allora giovanissimi – della Missione dell’allora IsMEO, ricordano la annuale visita “a palazzo”, prima con Tucci, poi con Domenico Faccenna, occasione che li obbligava a mettere nella valigia un abito da cerimonia. Facce cotte da mesi di scavo strette in colletti e cravatte, ognuna con in testa un discorsetto di cinque minuti, da sciorinare non appena il Wali gli avesse rivolto la parola. La precisione assoluta sull’orario: tutti stipati nella Land Rover, si percorreva a passo d’uomo il viale verso il “palazzo”, per non arrivare troppo presto o troppo tardi. Una volta l’autista, per uno sghiribizzo della sorte, si accostò troppo a sinistra e il portapacchi spiccò una dopo l’altra un paio di dozzine di mele dagli alberi del viale. Queste caddero, risuonando sulla carrozzeria, in una ritmica, polifonia di campane, che annunciarono l’arrivo, involontariamente scomposto, della delegazione. Nei bei tempi i rapporti erano molto “pubblici”: a caccia sui monti, ricevimenti, visite in Italia; dopo il 1969 le relazioni si fecero più private, ma anche più strette. Il Wali con Giuseppe Tucci, Aurangzeb con Domenico Faccenna e poi sia lui che i figli, con noi più giovani. Nei recenti anni difficili per lo Swat ci siamo trovati a condividere qualcosa che ci ha uniti ancora di più. Uno dopo l’altro i protagonisti di quest’epopea di scavi italiani in Asia sono scomparsi: Tucci nel 1984, il Wali nel 1987; Faccenna nel 2008, ora anche Aurangzeb. La cosa bella è che – nonostante gli archeologi indulgano al passato – possiamo guardarci indietro con nostalgia sì, ma senza recriminazioni. Signifer, statue signum; hic manebimus optime. Alloggiamo ancora nella stessa casa costruita dal Wali per Tucci nel 1960: al numero 31-32 di College Colony, a Saidu Sharif, nello Swat.

 

Luca M. Olivieri è Direttore della Missione Archeologica Italiana in Pakistan

 

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