Thomas Cromwell nel ritratto di Hans Holbein il Giovane. Dopo una carriera politica turbolenta, fu nominato conte di Essex

Il rottamatore di Sua Maestà

Stefano Di Michele

Cromwell fu il politico più risoluto ai tempi di Enrico VIII. Molti fili, meno una lama, lo legano a Renzi.

Ora che all’assalto si va. All’arma bianca e con schioppi e bombarde. Ora che il Gran Giornale solferiniano crocifigge, in opere e intenzioni, il ragazzotto spavaldo di Palazzo Chigi. Ora che vanno insieme, in fenomenale battuta di caccia, magistrati irritati, sindacalisti incazzati, raisti di Viale Mazzini depredati, “diciottisti” seppur politicamente in articulo mortis, imprenditori rattoppati, professori e sapienti e professoroni, gufi e civette e altre bestie incolpevoli. Ora che lo stomaco del suo partito stesso rimbomba, glu-glu-glu, lava vulcanica che sempre finisce col travolgere i suoi capi. Ora, appunto, ora… “I suoi disegni di legge sono passati ma ce n’è sempre uno in attesa. Nello scriverli si sondano le parole per ricavarne il massimo. Come gli incantesimi, le leggi devono far accadere le cose e funzionano soltanto se la gente ci crede” – così pensa, così giustamente pensa, Thomas Cromwell in “Wolf Hall”, primo volume della sterminata trilogia che la scrittrice inglese Hilary Mantel ha dedicato al più scaltro politico di Enrico VIII. “Nel momento in cui è stato detto tutto, è la mano a muoversi” – sempre Cromwell, nel secondo volume della sua trilogia, “Anna Bolena, una questione di famiglia” (il terzo, “The Mirror and the Light”, uscirà il prossimo anno, ancora da Fazi). Lettura appassionante, monumentale, quasi mille e trecento pagine (per ora), così da occupare utilmente l’intera estate. Lettura istruttiva per Matteo Renzi, avrebbe potuto essere – che invece, in vista del meritato ombrellone, se ne andò alla libreria Feltrinelli e ne uscì (apposito tuìt rese edotta la nazione, spersa e dolente tra gli scaffali) con magro bottino di saggi sull’Europa (piuttosto un’insolazione!), saggi di Landini (ma non ne ha abbastanza tutti i giorni?), saggi di insegnanti di Law and Ethics (aiuto!), saggi sullo stato che innova, il romanzo di un premio Nobel (Nadine Gordimer): tutto esemplare materiale, si capisce, soprattutto se uno deve andare a spassasserla a Capalbio, c/o l’Ultima spiaggia. Invece, dal maniacale resoconto della specialissima vicenda di Cromwell, Renzi avrebbe senz’altro tratto maggior giovamento. E qualche utile suggerimento per la battaglia che sarà.

 

Thomas Cromwell ha sempre avuto fama sinistra. “Un protostalinista corrotto”, lo ha definito uno storico. Per la verità, un po’ sinistro appare pure in queste pagine – ma non più di altri, anzi di altri molto più rassicurante, persino del veneratissimo e lodatissimo e alla gloria degli altari consacrato santissimo Tommaso Moro, che farà decapitare. Fatta la tara tra Inghilterra di allora e Italia di adesso, non c’è dubbio che per Renzi – piuttosto che innalzare preci a san Tommaso Moro, dei politici apposito protettore – meglio sarebbe buttare l’occhio e un pensiero alla prassi dell’altro Thomas: come lui, peraltro, dal niente sorto. E se Matteo paga la spocchia (alla sua, a volte, speculare) dei vecchi politici, Thomas pagò quella – lui, solo Master Cromwell anche al vertice del potere – dei nobili gentiluomini che trafficavano intorno alla camera del re, “sente lo sgranocchiare dei denti ducali”. Matteo i suoi ha consegnato alla rottamazione; Thomas i suoi, più risolutivamente, alla decapitazione. Se Matteo ha dietro babbo Tiziano e Mike Bongiorno e pratica da provinciale, lupetti scout e un filo di sopravvivenza democristiana, Thomas fuggiva da suo padre, maniscalco violento e ubriaco, fu sguattero e mercenario, servì banchieri e cardinali – prima di giungere al cuore (sempre un po’ arido) dell’irascibile Enrico VIII. Matteo non è stato eletto, Thomas si issò al vertice, plebeo pur intelligente e furbo, solo perché capace di curare pretese e incubi del sovrano: di togliergli dai piedi una moglie, tutta una chiesa, fornirgli un’altra moglie, farle volare via la testa, poi una terza moglie, poi un’altra – una di troppo, per come andò. Matteo deve fronteggiare l’assalto, Thomas fiutava le trappole. “Se sono riusciti ad escogitare quarantaquattro capi d’accusa, allora – se la fantasia non è imbrigliata dalla verità – possono escogitarne altri quarantaquattro”. Dice Matteo che i suoi avversari con lui “cascano male”. Più dettagliatamente suggeriva Thomas, nel pieno dello scontro mortale per sradicare i Bolena: “Guarda, risponde lui, una volta esplorata fino in fondo la possibilità di negoziare e trovare un compromesso, una volta che ti sei prefissato la distruzione di un nemico, devi portarla a compimento in fretta e con accuratezza. Prima ancora di gettare uno sguardo nella sua direzione, devi avere il suo nome su un ordine scritto, i porti bloccati, la moglie e gli amici al tuo soldo, l’erede sotto tua protezione, il suo denaro in una camera inaccessibile e il suo cane che accorre al tuo richiamo. Prima che si svegli il mattino, devi avere la mannaia in mano”.

 

Come Renzi, Cromwell – pur con mannaia in mano, o delega al polso del boia fidato – doveva sforzarsi di essere rottamatore, ma di garbo, far volare teste con un inchino, innovare con ipocrisia. “Se vogliono farmi la guerra loro me lo dicano, così mi regolo”, avverte Matteo. “E lui, come in una danza, fa volteggiare i suoi nemici finché gli stanno di fronte”, scrive la Mantel di Master Thomas. Che spiegava: “Quando un uomo ammette una colpa, dobbiamo credergli. Non possiamo darci da fare per provare che ha torto. Altrimenti le corti di giustizia non funzionerebbero”. L’uno guida il governo che il presidente Napolitano ha voluto, l’altro gestiva gli affari di governo perché così re Enrico voleva. A volte – ce n’erano pure allora di professoroni – qualcuno si azzardava a sottoporgli un’ipotesi. Alzava la mano, respingeva l’offerta: “Sarebbe opportuno non discutere per ipotesi. Tommaso Moro discuteva per ipotesi quando ha inciampato nel tradimento”. Statista valente, inquisitore efficace – umanamente vendicativo, come si addice a ogni uomo di vero potere, non di quello proclamato (si concede il perdono se dal perdono viene qualcosa che vale più della vendetta: sennò meglio la lama, partita chiusa). Di Machiavelli, a volte parla Cromwell. Allievo oltre il maestro. “Ha una copia del libro di Niccolò Machiavelli, una versione latina del ‘Principe’, edita sciattamente a Napoli e che sembra passata per molte mani (…) Che cosa c’è in quel libricino?, gli chiede qualcuno, e lui risponde: qualche aforismo, qualche ovvietà, niente che non sapessi”. E poi, logica di andreottismo spinto all’estremo, all’abuso – ché ogni logoramento da assenza di potere alla Torre e spesso al boia conduce. E alla necessità di gestire il travaglio dell’Inghilterra moderna che sta nascendo, fino ad abbattere un’intera religione; come quest’altro nostro governante – che di Machiavelli chissà se ha pratica, ma col quale condivide stessa cittadinanza – che assicura di voler accompagnare almeno a riva il paese che affoga. Se il renzismo si nutre di antichi rapporti amicali, spesso s’incontra Master Cromwell con l’occhio posato su un bellissimo arazzo, nella sua casa di Austin Friars. Ci sono ritratti Salomone e la regina di Saba. Quell’arazzo racconta l’esistenza stessa di Cromwell – come se fosse Leopolda, come se fosse camper che viaggia e lascia dietro rottami; come gli sbirri di Enrico che rottamavano conventi per conto di Sua Maestà, vorace di figli maschi, mogli e famiglie nobili. Quell’arazzo lo riporta al suo antico vero maestro. Da cui tutto apprese, e che vide rotolare nel fango – in senso letterale, davanti al messaggero del re che annuncia la sua destituzione, “le parole, le parole pronunciate in ginocchio, come se Wolsey si stesse disfacendo in una grande massa di filo scarlatto che potrebbe ricondurre dentro a un labirinto dello stesso colore, al cui centro giace un mostro morente”. Per lui, per Sua Grazia Wolsey – che gli insegnava pratica e rischi del potere davanti all’ira del sovrano, che in ogni suo giorno ha una possibilità di devastazione: “Di chi è la colpa?”. “Di Dio?”. “Qualcuno più a portata di mano?”. “La regina?”. “Qualcuno con più responsabilità effettiva?”. “Voi, Vostra Grazia”. “Io, Grazia Mia…” – nelle centinaia e centinaia di pagine, simile a lama che sempre più viene resa tagliente, “il dolore era come una cote su cui veniva affinato il coltello, e che si è consumata finché è arrivata la morte”, prepara la vendetta. Prima porta a compimento l’opera che al maestro non riuscì (la separazione da Caterina d’Aragona), sradica con violenza proprio la religione di cui il suo maestro era principe in vesti scarlatte – poi azzanna la gola di chi danzava intorno al suo fantasma.

 

Quell’arazzo apparteneva al cardinale. Quando cadde in disgrazia, il re se lo prese. Quando Cromwell cominciò la sua ascesa, il re glielo donò. Da lì viene, Cromwell. Lì è tornato – non sa ancora quanto, e fino a che punto. “E’ uno spettacolo indecente, veder ridotto a niente l’uomo che ha governato l’Inghilterra”, pensa Cromwell. Ma è così, poco altro c’è da pensare: “Rovescia il re come un guanto e troverai i suoi antenati squamosi: la sua calda, soda carne di serpe”. Ma vede anche altro, una sera a corte, quando ormai il suo cardinale è morto di spavento e paura: un enorme pupazzo color scarlatto, dentro c’è il giullare – quattro uomini in maschera che tra musica e risate della corte, che fino a poco prima al passaggio del cardinale si inchinava timorosa e avida, lo tirano e lo sbattono e lo sbeffeggiano. “Quattro uomini che per scherzare hanno trasformato il cardinale in una bestia: lo hanno spogliato della sua intelligenza, della sua gentilezza e della sua grazia e ne hanno fatto un animale che ulula, che striscia sulle tavole di legno, raspa a quattro zampe”. Cromwell, dall’ombra osserva, e nell’ombra delle maschere cerca di imprimersi le facce dei quattro. “Gli sciacalli del giorno dopo”, ha detto Renzi; e avrà di sicuro pensato nell’occasione a Thomas. E’ sopravvissuto alla sorte del suo protettore, Cromwell. Miracolosamente. Fino a sfiorare la sommità, a scoprire la vertigine. E’ sopravvissuto a lutti e ferite e botte e febbri, il figlio del fabbro ubriacone di Putney: “Credete di non poter respirare e invece la gabbia toracica è di tutt’altro avviso, si alza e si abbassa e manda dei sospiri. Si è costretti ad andare avanti malgrado se stessi. E perché questo accada, Dio vi leva il cuore di carne e ve ne mette uno di pietra”. Renzi (pur senza cuore di pietra, crema e limone su cono al massimo): “La politica deve essere conquista, deve essere senza rete. Come diceva Clint Eastwood: ‘Se vuoi una garanzia, allora comprati un tostapane’”. Ha detto ancora il Cromwell riedificato nel gigantesco affresco della Mantel: “Una volta intrapresa una strada, non dovreste scusarvi di percorrerla”. E così spietata, per i riti italiani, è stata la vendetta di Renzi, che alle anticamere e al pubblico sberleffo ha costretto antichi, ducali avversari. Diverso, più radicale, fu ciò che Cromwell decise – solo perché diversa era la politica (e la vendetta nella stessa) che allora si consumava: tutta la nazione galleggiava sul sangue versato dai Tudor. “Ma io me ne ricordo”.

 

Chi l’ha ostacolato. Quelli che hanno insultato il cardinale ridotto a buffone e poi l’hanno aiutato a innalzarsi credendo di servirsene. Chi né una cosa né l’altra. Ma ora sono qui, davanti a Master Cromwell – mentre la regina Anna tende il collo verso il boia – che deciderà la loro sorte di amanti della Bolena, di traditori del re, il Re Pistolino nelle ballate popolari che pure le mogli divora. Gli domandano i suoi esecutori: “Quale genere di verità vogliamo? Tutta la verità?”. Risponde: “Soltanto quella di cui possiamo servirci”. Perché Cromwell – per placare il re, per ricondurre alla pace l’anima di Wolsey – “ha bisogno di uomini colpevoli, perciò ha trovato dei colpevoli. Anche se magari non delle accuse addebitate loro”. Ci sono quelli che davanti a lui (nel ritratto che ne fece Hans Holbein il Giovane appare flaccido, quasi insignificante, simpatico Cicciobello, al dito il turchese che gli donò Wolsey mentre scivolava nel fango) ancora tirano fuori la boria del nobile che non dimentica che quel giudice miserabile è figlio di miserabili: “Mi rifiuto di rispondere”. “Vostra Eccellenza, sono abituato a trattare con coloro che si rifiutano di rispondere”. E tira la somma del conto aperto anni prima, spalanca le porte al boia, riposiziona ognuno dove quella sera a corte si trovava – piede destro, braccio sinistro – mentre si calciava col cardinale ridotto a pupazzo. “Ogni passaggio è chiaro, logico, disegnato per generare cadaveri col debito procedimento legale”. E pure pensa e si stupisce, Cromwell, “sto facendo quello in cui non avrei mai creduto di riuscire, ho preso l’adulterio, l’incesto, la cospirazione e l’alto tradimento e li faccio passare per cose di tutti i giorni. Non abbiamo bisogno di immotivata esaltazione”. Non è forse, questa, perfetta e shakespeariana – se Shakespeare già ci fosse – rappresentazione di rottamazione? Non così diversa l’Inghilterra del famelico Enrico dall’Italia vociante e buzzurra, spesso paranoica e bulimica di misteri e sporche trattative e immondi patti: “Ora, se quel che tiene occupato l’uomo è l’inganno, vi ingannate credendo di poterne afferrare il significato. Chiudete la mano e quello vola via. Una legge viene scritta per intrappolare il significato, una poesia per fuggirlo”.

 

[**Video_box_2**]E tutto uno slalom, il vertiginoso salire, ma a spirale, faticoso, quello di Master Cromwell – quotidiano sfibrante muoversi tra riverenze e occhi bassi, “Vostra Maestà”, “Vostra Grazia”, “Vostra Eccellenza”. E’ solo il figlio del fabbro – paga i loro debiti, le loro puttane, custodisce i loro segreti. Chiedono sempre, frignano come bimbi, levano stendardi senza più vento che li smuova. Protegge le loro coronate e vuote teste, poi come Master of the Rolls le stesse teste affida al boia. Pieno di Maestà e Grazie ed Eccellenze di vecchie satrapie in disfacimento l’orizzonte di Renzi – che qualche debito alle venerate ingordigie paga, senza eccedere: là dove occorreva all’uomo di Austin Friars una lettera ai banchieri di Anversa, adesso un semplice tuìt consola e dispone (#staisereno). Sempre e soltando dipende, ora e allora, da che parte sono voltate le alabarde mentre passi: se al contrario, o se invece il filo della lama ti fissa. Renzi ai senatori: “Vedrete che vi divertirete…”. Cromwell ai nobili: “Adesso sono io la compagnia adatta a voi”. Matteo: “Questa è la fine di un gruppo dirigente della sinistra, non della sinistra”. Thomas: “Costoro pretendono che siano fatti loro dei favori, che siano ignorate le loro negligenze, pensano di essere speciali e vogliono che gli altri ne siano consci (…) Io ho già fatto tutto il possibile, pensa, per andare loro incontro. Adesso devono venire loro incontro a me, o essere tolti di mezzo”. Allora non molto di più, una testa, di quanto oggi sia il posto da commissario europeo o ministro o in lista – tutto è relativo, tutto è prospettiva. Il contesto muta sostanza, mica forma. E’ Cromwell “il signore supremo degli spazi e dei silenzi, dei vuoti e delle cancellature, di ciò che è omesso, che è stato mal interpretato o semplicemente mal tradotto…”. Renzi, fissando gli antichi padroni del suo partito: “Io non tramo, ma non tremo”. Cromwell, scrutando i nobili amici del re che lo odiano e lo temono – da un quarto di secolo stesse movenze e stesse sciocchezze: “Venticinque anni dopo sono brizzolati o stempiati, flaccidi o obesi, sciancati o con qualche dita in meno, ma sempre arroganti come satrapi e con la finezza mentale di un torsolo di mela”. Sospetta l’uomo del Pd: “Se vogliono farmi la guerra loro me lo dicano…”. Era certo l’uomo del re, rimirando nuovi alleati che lo avevano aiutato a far fuori i vecchi: “Hanno mangiato al banchetto che lui aveva preparato e vorranno eliminarlo con le ossa e gli altri avanzi. La tavola però era sua. Ci sale sopra fra i brandelli di carne. Che provino a tirarlo giù”.

 

Perciò utilissima lettura, per l’estate di Renzi, e con l’autunno di trame e veleni che si prepara, sarebbe stata la storia magistrale di Thomas Cromwell. Altro che Landini, con tutto il rispetto. Poi si sa – mica bisogna aspettare il terzo volume per conoscere la sorte: sarà barone Cromwell, sarà Gran Ciambellano, sarà Lord Cancelliere, sarà persino conte di Essex – appena prima di poggiare la sua testa là dove lui, anni prima, aveva fatto poggiare quella di Tommaso Moro: sul ceppo del boia, “un rozzo miserabile boia che non fece affatto bene il suo lavoro” (dalle cronache). Tutto precipita, proprio quando il figlio del fabbro – o di uno che lavorava stoffe – diventa nobile: cede l’antica, proletaria corazza di ferro. Storia dell’ennesima moglie per l’insaziabile re: per politica, Cromwell gliene procura una brutta ma utile, Anna di Clèves; “una grassa giumenta delle Fiandre!”, urla Enrico – e la sua testa rotola. Su una giumenta, o chissà quale altra bestia, magari pure Matteo inciamperà. C’è sempre discesa, dopo il vertice assoluto. Proprio quando al vertice si avvicinava, Cromwell sapiente sospirava: “Pensa, per quanto possa battermi, un giorno non ci sarò più e visto come va il mondo, potrebbe essere un giorno non lontano: che importa se sono un uomo risoluto e vigoroso, la fortuna è mutevole e mi faranno fuori o i miei nemici o i miei amici”. Così, aveva certezza quel fenomenale rottamatore. Così – ora che la stagione della caccia si è aperta, battitori accorrono in massa e bracconieri si calano nell’ombra – Master Renzi, esso pure uomo risoluto e vigoroso, stia all’erta. Adesso sa.

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