Lo stabilimento dell'Ilva di Taranto (foto LaPresse)

Habitat industriale

Alberto Brambilla

Se Piombino esulta per i capitali indiani, non sarà lo stesso all’Ilva. Si curerà la “sindrome Banana”?

Roma. Il sociologo dell’urbanizzazione Giandomenico Amendola ha sintetizzato, in acronimi, l’escalation dell’intransigenza ambientalista nel sud Italia: pare che la sindrome Nimby (Not in my backyard)  stia lasciando la scena alla sua sorella più radicale, la sindrome Banana (Build absolutely nothing anywhere near anything). Si passa cioè dal dire “non voglio nulla nel mio giardino” – centrale nucleare, rigassificatore o altro – al “non voglio nessuna di queste cose nemmeno nei paraggi”. La metamorfosi, spiegata sull’edizione pugliese del Corriere del Mezzogiorno di ieri, va di pari passo con l’aumentare dei “no” urlati senza mediazioni “all’indirizzo di tutto”, dice il sociologo, mentre il vuoto istituzionale creatosi con la “vaporizzazione” dei partiti offre spazio “insperato” a nuovi leader che fanno della “Banana” una bandiera. Gli obiettivi sono identificabili: “Ora il gasdotto Tap nel Salento, ieri le trivelle petrolifere in alto mare, il giorno prima le grandi pale eoliche colpevoli di deturpare il paesaggio sassoso del subappennino, e ancora i pannelli solari che toglierebbero preziosi terreni all’agricoltura”. Un freno di natura ambientale per l’attrazione degli investimenti esteri, già scarsi quando si parla d’industria soprattutto a causa di note barriere burocratiche e fiscali. Al 22 luglio sono stati finanziati dall’estero 15 progetti di ampliamento industriale; valore 750 milioni di euro. Quest’anno solo la multinazionale americana del tabacco Philip Morris ha deciso di costruire uno stabilimento ex novo (nel bolognese).

 

L’accoglienza riservata ai capitalisti stranieri tuttavia varia a seconda della latitudine. In vista del probabile acquisto dell’acciaieria di Piombino da parte della Jindal South West Steel, il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, ha detto che la nuova proprietà riceverà il plauso di operai, cittadini e amministratori. Ci si aspetta l’opposto a Taranto, dove i pretendenti per un eventuale acquisto dell’Ilva non mancano ma spesso s’invoca la chiusura dell’acciaieria. Gli indiani Jindal stanno visitando gli stabilimenti in questi giorni. Ieri ArcelorMittal ha confermato l’interesse dopo un incontro con il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, cui hanno partecipato anche i Marcegaglia. Le trattative, cominciate in estate, proseguiranno. Tra le ipotesi c’è la divisione in bad e good company (in stile Alitalia) con il risanamento ambientale a carico del gruppo franco-indiano e le pendenze giudiziarie a carico della famiglia Riva, dice il Sole 24 Ore.

 

La deriva feudale è davvero maggioritaria?

 

“E’ paradossale la differenza fra quanto accade a Piombino e a Taranto. E desta comprensibile stupore che nel capoluogo ionico vi sia qualcuno che considera l’industria siderurgica vecchia e tardo-ottocentesca come se l’acciaio non fosse più una risorsa strategica per qualsiasi economia industriale avanzata”, dice Federico Pirro, docente di Storia dell’industria all’Università di Bari e membro del Centro studi di Confindustria Puglia. La disputa sull’Ilva s’innesta in un habitat all’apparenza inospitale per l’industria pesante. La risonanza mediatica concessa agli attivisti “verdi” è notevole e offre l’impressione di una città in ostaggio dell’ambientalismo estremista. Alcuni, come Beppe Grillo, invocano la chiusura degli impianti affinché agricoltura e pesca riconquistino la scena. Un ritorno al passato: negli anni Sessanta, l’industrializzazione tarantina venne calata dall’alto con la fondazione dell’Italsider, oggi Ilva, per scongiurare la desertificazione industriale post bellica ed evitare di riconsegnare la città a un destino agricolo-feudale. Da allora Taranto è “Italsider-dipendente”. Lo stabilimento siderurgico oggi è la prima impresa manifatturiera del sud per numero di impiegati. Ma, al di là della stampa, è corretto dire che la maggioranza dei cittadini desidera la “morte” dell’Ilva? Guardiamo le piazze: nella sua prima visita a Taranto, il 13 settembre, Matteo Renzi ha trovato una trentina di rumorosi contestatori mentre incontrava i vertici Ilva in prefettura; il 10 agosto scorso, a  disturbare la marcia di duemila imprenditori e operai dell’indotto Ilva per “dire no alla città dei no”, c’erano una quindicina di ambientalisti. Quando ai tarantini venne chiesto se volevano la chiusura dell’Ilva o dell’area a caldo, la maggioranza disertò il referendum. Non tutti soffrono di bananismo.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.