Il governo Renzi (foto LaPresse)

Cambiare agenda, non cambiare governo. Cosa non funziona sul Lavoro

Stefano Fassina

E' indicatore della nostra subalternità culturale prima che politica tornare a discutere di regole del mercato del lavoro in un Europa che dopo 7 anni è di fronte a uno scenario di depressione e deflazione. Purtroppo, l’agenda politica la fanno gli interessi più forti. Il punto di vista di Stefano Fassina.

Al direttore - Premessa: è indicatore della nostra subalternità culturale prima che politica tornare a discutere di regole del mercato del lavoro in un Europa che dopo 7 anni è di fronte a uno scenario di depressione e deflazione. Purtroppo, l’agenda politica la fanno gli interessi più forti. Noi la subiamo e possiamo soltanto provare a evitare danni maggiori. A proposito di lavoro, il presidente del Consiglio ha più volte ricordato che: “A me hanno insegnato che essere di sinistra vuol dire combattere un’ingiustizia, non conservarla”. Anche a me, in una scuola diversa, hanno insegnato la stessa cosa. Il punto è come individuiamo le ingiustizie che una forza di sinistra deve combattere. Per i vertici del Pd, il bersaglio da colpire sono gli operai che, dopo un quarto di secolo di riduzione delle loro retribuzioni, arrivano a prendere 1.200 euro al mese, per un orario di lavoro superiore di circa 400 ore a quello medio europeo; sono stati licenziati in centinaia di migliaia negli ultimi anni; e devono rimanere al lavoro fino a 67 anni.

 

Perché devono essere loro il bersaglio della sinistra che combatte le ingiustizie? Perché hanno, secondo l’egemonia liberista, la colpa di aver difeso una residua e marginale tutela contro il licenziamento senza giustificato motivo. Per il sottoscritto e per tanti altri, i bersagli sono, invece, le enormi, insopportabili, disuguaglianze e la concentrazione dei redditi e delle ricchezze sul top 10 per cento e 1 per cento della popolazione, accumulate grazie a una globalizzazione senza regole che ha consentito alla finanza di spremere lavoratori e piccoli imprenditori e che ha dato alle multinazionali la “libertà” di fare shopping di lavoro sui mercati nazionali più poveri e di pagare meno tasse di un artigiano o commerciante. Per il sottoscritto e per tanti altri, i bersagli da colpire sono i grandi evasori che hanno spostato milioni di euro nei paradisi fiscali e dormono sonni tranquilli, mentre il disegno di legge sulla “voluntary disclosure” giace dimenticato in Commissione finanze alla Camera perché contiene anche la norma contro l’auto-riciclaggio e il governo non vuole scontentare Forza Italia. Ma lasciamo il terreno etico-politico e spostiamoci su quello economico. Prima affrontiamo il terreno micro, poi passiamo a quello macro. E’ sensato sostenere che, sebbene ingiusta, la cancellazione della possibilità di reintegrare un lavoratore o una lavoratrice licenziata ingiustamente, porterebbe a maggiore occupazione a tempo indeterminato per chi oggi è precario? Andrebbe innanzitutto rilevato che la percentuale di contratti di lavoro precari, nelle imprese sotto i 15 dipendenti (fuori dalla normativa che prevede la possibilità di reintegro), è il doppio che nelle imprese oltre i 15 dipendenti. Come si spiega tale contraddizione? Dovrebbe essere il contrario se l’art 18 avesse la funzione precarizzante che gli viene attribuita. Si spiega con una ragione banale: i contratti precari costano all’impresa molto meno dei contratti di lavoro dipendente, in particolare quelli di lavoro dipendente a tempo indeterminato.

 

Inoltre, andrebbe ricordato che la mobilità, da un’azienda verso la disoccupazione o altro lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici con contratto a tempo indeterminato è sostanzialmente uguale nelle imprese sopra e sotto i 15 dipendenti. Vuol dire che la presunta rigidità dovuta alla possibilità di reintegrare chi viene licenziato senza giustificato motivo è irrilevante ai fini della turn over dei lavoratori e delle lavoratrici. Del resto, le imprese sopra i 15 dipendenti possono licenziare senza particolare problemi per motivi economici anche un singolo lavoratore e lavoratrice e, dopo l’intervento Fornero del 2012, la normativa prevede la possibilità di reintegro soltanto quando l’assenza di giustificato motivo o giusta causa è “manifestamente” evidente: in casi ambigui o sospetti il giudice deve procedere a riconoscere soltanto l’indennizzo economico. Forse si dimentica che oggi l’impresa può assumere e licenziare come e quando vuole perché può utilizzare decine di forme contrattuali precarie. Dopo il secreto Poletti, può assumere a tempo determinato senza causale e può utilizzare il contratto di apprendistato, caratterizzato da larghe agevolazioni fiscali, senza sostanziali vincoli alla stabilizzazione alla fine del triennio. Allora, perché le imprese non assumono? Perché non hanno domanda. E qui, veniamo al piano marco-economico. Sul piano macro, eliminare la possibilità di reintegro in caso di licenziamento ingiusto che cosa comporterebbe? Ecco l’obiettivo vero dell’ennesima offensiva sul lavoro. Comporterebbe un ulteriore indebolimento contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici e, inevitabilmente, minori retribuzioni.

 

[**Video_box_2**]Insomma, l’insistenza sulla precarizzazione del lavoro da parte della Commissione europea e del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo della Ue, organismi politici dominati da almeno un decennio dai conservatori e dalla linea liberista, è finalizzata a portare avanti la svalutazione del lavoro come via alle export e alla ripresa, data l’impossibilità di svalutare le monete nazionali. È una strada controproducente. Dovrebbe essere oramai riconosciuto anche dagli interessi più corporativi. La svalutazione interna, determinata dai tagli al welfare, dall’aumento di imposte e dalla compressione delle retribuzioni aggrava la stagnazione, la disoccupazione e l’aumento del debito pubblico in quanto siamo in una spirale deflattiva dovuta alla carenza di domanda aggregata. Giorgio La Malfa in un efficacissimo commento sul Corsera del 22 Settembre ha descritto bene il meccanismo perverso. Allora che fare per combattere la disoccupazione e la precarietà? Correggere radicalmente la politica economica dell’euro-zona, coma ho più volte indicato negli ultimi anni anche sul Foglio. Certo, è difficile. Ma, è necessario, non ci sono scorciatoie. Preparare una legge di stabilità espansiva. Anche essa è difficile da realizzare, dati i rapporti di forza politici e economici prevalenti nell’euro-zona. Ma anche essa condizione per evitare un 2015 come il triennio alle nostre spalle.

 

Infine, le regole del mercato del lavoro. Le cosiddette riforme non sono neutre. La discussione tra di noi non è, come viene rappresentata, tra innovatori e conservatori, ma tra visioni diverse di innovazione: i cambiamenti possono essere regressivi o progressivi. E non c’è nulla di ideologico nella nostra discussione: sono in gioco le condizioni materiali di vita e di lavoro di milioni di persone. Lasciamo stare le “foglie di fico”, la vecchia guardia” e la Thatcher. Entriamo nel merito dell’emendamento del governo alla Delega Lavoro. Ora è una delega in bianco scritta dalla destra. Aggrava la precarietà. Dobbiamo specificare i criteri di delega. Quali tipologie di contratti precari il governo vuole abolire? Noi vorremmo un radicale disboscamento della giungla della precarietà. Quali tipologie di lavoratori e lavoratrici intende coprire con la riforma dell’indennità di disoccupazione e delle altre tutele fondamentali, come la maternità? Noi vorremmo universalizzare le tutele fondamentali e essere sicuri delle risorse disponibili. I due miliardi di euro indicati dal governo per estendere le tutele sono quelli previsti per la cassa in seroga o sono aggiuntivi, come dovrebbero essere? La condizione per asciugare l’area della precarietà è la riduzione degli oneri sociali sul contratto di lavoro dipendente, come indichiamo da anni. Altrimenti, eliminati i contratti precari oggi disponibili, prevalgono le finte Partite Iva invincibili per via normativa o con i controlli della Guardia di Finanza e degli ispettori del lavoro. Il Governo è in grado di trovare le risorse? Quante? Infine, perché per la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici in caso di licenziamento senza motivi dovremmo abbandonare il modello tedesco, più volte evocato dal Presidente del Consiglio, e ripiegare sulle ricette liberiste dei conservatori nostrani e europei? Rispondiamo insieme a tali domande e uniamo il Pd per il cambiamento progressivo. Insistere sul paradigma dell’apartheid, imposto dai conservatori prima al là, poi al di qua dell’oceano Atlantico a partire dagli anni ‘80, per dare giustificazione etica all’emendamento sulla delega lavoro, alimenta la guerra tra poveri e aggrava la spirale recessiva dell’Italia. E’ una facile previsione, non una gufata rosicona. Abbiamo cambiato 4 governi in 4 anni e tenuto sempre la stessa agenda. Vorremmo tenere il governo Renzi e cambiare l’agenda.

 

Stefano Fassina è deputato del Pd ed ex viceministro dell’Economia