Pietrangelo Buttafuoco, autore di “Buttanissima Sicilia” (in basso, la copertina). “Sono atterrito dalle fotografie scattate dall’Istat. La Sicilia fra dieci anni sarà un deserto assoluto”

E la buttanissima rispose

Redazione

Quasi una rivolta, quasi una controrivoluzione borghese. Perché il libro spadaccino di Buttafuoco è diventato l’unico antidoto contro la malapolitica che divora la Sicilia.

Questa storia siciliana contemporanea in fondo è una favola vecchia che abbiamo già ascoltato da bambini. C’era una volta un drago che teneva avvinta e prigioniera una fanciulla. C’era un principe azzurro. Con le dovute precauzioni di misura e di metafora, con la leggerezza del ridicolo e dell’ironico, col gusto dello sberleffo in aggiunta, si può declinare così. Il drago ha nome e cognome. Ha scaglie e distintivo. Si chiama Rosario Crocetta, infiammabilissimo governatore siciliano, che sputa fuoco contro chiunque osi levare il sussurro di una critica sulla sua squinternata epica rivoluzionaria, fardello di disastri e cose da tremare. La fanciulla è la Sicilia incatenata, legata a un sortilegio, eppure incapace di spezzare il giogo e di opporsi all’Impostura Crocettiana, per ragioni che attengono in parte ai limiti di un’oscena autonomia, in parte al servilismo che è un’invenzione made in Trinacria. Il principe – e gli chiediamo subito scusa, con un sorriso – è Pietrangelo Buttafuoco, cercatore d’oro delle parole. Pietrangelo non baciò la fanciulla sulle labbra ardenti.

 

“Buttanissima”, le disse. E quella, per incanto, si risvegliò.“Buttanissima Sicilia – dall’autonomia a Crocetta, tutta una rovina” è il titolo di un libriccino giallo che certi congiurati tengono caro, come un giuramento sul cuore nella sala di una vagheggiata pallacorda. Una radiografia da straziare l’anima, nella minuta descrizione degli sfaceli del Crocettismo, rimpolpati da amarissime cronache quotidiane. Sfaceli – immangiabile vitto giornaliero sulla tavola dei siciliani – che rendono il libriccino struggente e incompleto, perché superato dalla sequela di sempre fresche sciagure. Pietrangelo Buttafuoco l’ha pubblicato con Bompiani per rabbia e per dolcezza. L’ha scritto con un soprassalto di coscienza, come uno che si sveglia di colpo, vede la casa che va a fuoco e comincia a prendere a secchiate d’acqua tutto quello che si muove. Un antico poeta indovinò la sintesi: “L’incendio di una fattoria è una tragedia. La rovina della patria è soltanto una frase”. Pietrangelo il Cercatore ha sentito sulla sua pelle l’alito della rovina della patria, il crollo della fattoria familiare, il gorgo della disperazione, moltiplicato dalla giunta di Saro il gelese, in apparenza un inno glorioso alla legalità, nella sostanza una marcia funebre. Perciò, ha scritto, gettando in faccia a un’Isola addormentata l’impudicizia del suo sonno. C’è stata una reazione galvanica, un aprirsi e sbattere di occhi, una domanda terapeutica sorta dall’astenia: perché? Già, perché?

 

Sfogli il libriccino giallo, sistemato sul comodino della controrivoluzione. Lo schiaffo arriva. Istantaneo. Si legge: “Adesso basta. Qualcuno – Matteo Renzi? – dica basta, perché l’autonomia sarà cosa santa e giusta ovunque, ma in Sicilia no, è un flagello e trascina nel baratro l’Italia. Lì, l’autonomia regionale, fonte di sprechi e burocrazia, è l’acqua che nutre l’arretratezza economica e sociale di un pezzo importante del Mediterraneo. Ed è la fogna in cui nuota la mafia. Basta, dunque. E’ urgente, infatti, come chiede da tempo Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, nominare un commissario dello Stato al posto del governo regionale di Rosario Crocetta; è fondamentale – per come ha reclamato Antonello Montante presidente di Confindustria in Sicilia – avere nell’Isola un plenipotenziario che metta mano alla spesa e al bilancio: il default è in agguato, ma, seguendo i passaggi di legittimità, è necessario abrogare lo Statuto speciale (…). C’è anche l’impostura di una rivoluzione tanto attesa, quella di Crocetta, ma sempre affidata alla procura. Tipico comiziante, l’attuale governatore, eletto grazie a un giochetto elettorale di Gianfranco Micciché (ebbene sì, sono cose di Sicilia), criminalizza i tanti problemi che non sa risolvere. Invece di governare, declama. E l’acqua gli va sempre al mulino con tutti i mafiosi che, intelligentissimi, nei suoi momenti di difficoltà (quando gli viene meno la maggioranza, quando il capo dello Stato lo smentisce con un comunicato) vanno a recapitargli bossoli e proiettili per rafforzarlo come un Pokemon invincibile. Eroe dell’antimafia, Crocetta fa dell’antimafia un automatismo”.

 

Un tratto di penna. Crocetta, il drago della rivoluzione di cartapesta che nulla ottiene se non l’aggravamento del malato, ormai moribondo. Il libriccino giallo, la bibbia della controrivoluzione che si può fare solo con l’oro delle parole, perché la tagliola della (buttanissima, of course) autonomia regionale prevede che il presidente sia davvero un Pokemon invincibile. Per mandarlo a casa, gli onorevoli dell’Ars – il Parlamento, dicono, più antico del mondo, di sicuro il più inutile – dovrebbero firmare il proprio suicidio, dimettendosi o votando una mozione di sfiducia che li manderebbe a casa a loro volta. Poiché è da escludere che il sultanino di Gela, pervaso dall’identificazione narcisista del redentore, scelga di abdicare, l’equazione è presto risolta. Non è strada che spunta. Ci sono ancora anni di catena, aritmetica alla mano. Per la controrivoluzione restano le parole, resta la copertina di Pietrangelo, il vademecum della Sicilia che non voleva morire cuffariana, ma nemmeno vuole morire crocettiana. Ed è necessario ricordarlo una volta per tutte: si può tranquillamente pensare che Crocetta sia “la rovina della patria”, senza essere mafiosi, conniventi d’antico pelo. Si può onestamente ritenere che il califfato di Rosario, intriso di prosopopea legalitaria, non sia per forza la risposta giusta, solo perché arriva sulla tavola dopo una serie di risposte sbagliate. Ogni califfato, nato magari con le migliori intenzioni del mondo, pure in via di paradosso, produce un articolo in esclusiva: teste mozzate. Anche se si tratta di teste mozzate in senso figurato, rotolano giù con dolente fragore, tra le dune sabbiose del deserto che la Sicilia è diventata.

 

La testa ghigliottinata con maggiore accanimento è la credibilità dell’antimafia, già prosciugata da pessima fama e da torbidi carrieristi, dagli “amici di Giovanni e Paolo”, club sorto all’indomani delle stragi, composto, perlopiù, da coloro che sputacchiavano sulle toghe di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quando respiravano. L’automatismo antimafioso farlocco, che offusca la sincerità dell’impegno di pochi e ostinati antimafiosi veri, prevede che l’assessore alla Salute sia l’onesta Lucia Borsellino, non in quanto Lucia, in quanto Borsellino. La mafia rassomiglia, nel gioco di specchi dei riflessi cangianti, nel Monopoli delle rendite, al vampiro che rende ricco il commerciante d’aglio. Lucia, figlia di Paolo, è l’esorcismo, la giaculatoria del Rosario, il talismano contro i succhiasangue, la figurina splendente nell’album degli antimafiosi (stagione 2013-2014) da esibire in opportune occasioni. Però Lucia sembra averne avuto abbastanza di troppe percosse, del veleno di un ambiente che le ha succhiato il sangue, per un verso o per l’altro. Ha già detto che il suo futuro sarà di certo lontano dalla Sicilia. Quale foglia di fico, dunque, proteggerà la nudità del califfo? Eguale schema si ricalca nella nomina di Valeria Grasso, titolare di una palestra, imprenditrice antiracket, innalzata al vertice dell’Orchestra sinfonica siciliana, senza competenza bollata di pentagramma e dintorni. Hanno protestato tutti i più importanti nomi della musicologia, il più significativo dei quali – oltre che per competenza, per destino – Gioacchino Lanza Tomasi. E Franco Battiato, pur ex assessore di Crocetta, ha precisato: “Di solito in campo mondiale, alla guida di istituzioni di questo tipo si mettono persone competenti del settore e non un tennista…”. “Due sono i tipi di mafia: la mafia e la mafia dell’antimafia”, Buttafuoco scripsit. Sciascia sghignazza nell’alto dei cieli.

 

Ma solo se non siete siciliani, potete permettervi il lusso dell’allegria, da viventi. Solo se siete forestieri, o indigeni che hanno cercato e trovato fortuna altrove, vi sarà lieve sorridere delle cronache di una terra sconsacrata, che annega un centimetro di più ogni giorno. E il suo presidente, Saro da Gela, nel frattempo, che fa? Va alla “Zanzara” per annunciare cose di vitalissima importanza: “Mi piacerebbe adottare un bambino. Prima non mi sentivo pronto, ora sì. Ma lo adotterei come single, non come coppia”. Ancora giovedì scorso, sul Fatto quotidiano, si descriveva vittima di attacchi non politici bensì omofobi. “E adesso sta facendo della sua omosessualità, di quella sua e di quella di tanti, una parodia”. Buttafuoco scripsit. Appunto.

 

La politica siciliana è una fogna. La putrefazione è garantita da coltivatori di liquami che tengono il governo Crocetta attaccato al bocchettone dell’ossigeno, organizzando l’ignavia parlamentare. Non ci sarebbero né Saro da Gela, né il Crocettismo, se non ci fosse un’Assemblea regionale appesa come una cozza ai suoi privilegi, al suo brandello di aristocrazia, nel dramma di un popolo ridotto a plebe affamata.

 

Non esisterebbero il “Presidente Rosario Crocetta”, né i patatrac che ormai invadono un campo talmente vasto da non potere essere più racchiusi in una definizione, se non ci fosse, a mo’ di contrappeso e contrappasso, l’irrilevanza di un Partito democratico, a Palermo, messo perfino peggio che a Roma. Il Pd di Sicilia è il tombino che copre il tanfo. I suoi malinconici dirigenti si scannano tra renziani e cuperliani per mantenere intatta una formidabile reputazione di divisioni e inconcludenza, consolidata in anni di sfascio operoso. Il segretario del Pd, Fausto Raciti, decide a un certo punto di scendere dalla carrozza. In un’intervista ad Accursio Sabella di LiveSicilia la presa di distanze suona perentoria: “Chi si sente ancora del Pd non può che scegliere: o lascia questa avventura al fianco di Crocetta, o afferma apertamente di sostenere questa esperienza”. Uno si aspetta che succeda il cataclisma. Invece, non succede proprio niente. Il niente favorisce la replica beffarda del drago, giusto una tenue fiammella per umiliare ancora di più l’interlocutore: “Raciti ha convocato un vertice di maggioranza? Ma non ha detto di essere fuori dalla maggioranza? Mi pare un po’ surreale…”.

 

Dunque, se anche il gran maestro del nonsenso accusa qualcuno di surrealismo, sul serio non ci rimane che il libriccino giallo, per rimettere i tasselli a posto. Per consolarci dell’equilibrismo di Matteo Renzi che giunge a Palermo, per l’anniversario del martirio di don Pino Puglisi, spande perline colorate di antimafia, ma smarrisce sul più bello il filo della sostanza del discorso. Infatti, a preciso quesito politico nicchia: “Credo che siamo in un luogo istituzionale, le domande al segretario del Pd le facciamo da un’altra parte”. Tanto delicate sono le narici fiorentine del premier da evitare ogni riferimento a questa tragedia nazionale. La morte della Sicilia, l’oscenità dell’autonomia, Rosario Crocetta, pezzi correlati dentro un unico mosaico, sono argomenti pruriginosi. Non sta bene parlarne in società.

 

Tuttavia, forse qualcosa sta cambiando. L’oro delle parole penetra nelle crepe della storia di draghi, fanciulle, fogne e involontari principi. Il libriccino spopola. Ovunque si presenti, insorge un furore di sdegno, una spuma di commentatori. Da Capo d’Orlando a Racalmuto – da Custonaci a Donnafugata, a Scicli, ad Agrigento – a Palermo, è uno sbattere di occhi, il risveglio da una pesante cappa di sonno. Sotto tendoni improvvisati, nell’augusta cornice di ville restituite alla bellezza, in giardini di fortuna, in affollatissime adunanze carbonare, “Buttanissima…” viene letto e soprattutto vissuto. Uno sfogo, una rappresentazione di rabbie e sogni per troppo tempo trattenuti. La gente sussulta, dà forma a un’urgenza di riscatto. Le parole planano dal palco – nei posti in cui gli esseri umani tuttora s’incontrano – si uniscono ad altre parole che, spontaneamente, salgono dal basso, sottolineate da borbottii, sguardi che si accendono, gesti di insofferenza e di voglia di qualcosa, qualsiasi cosa che non sia il presente. Quasi una riedizione dal vivo della scena della fantozziana corazzata Potëmkin. Ricordate lo stupore del professor Guidobaldo Maria Riccardelli? Si agitano… Partecipano… Osservano la pellicola che narra la perdizione, con chirurgia da entomologi e affetto da compatrioti. Infine, esplodono. Tutti. Lo sdegno maieuticamente svelato in un’estate tutta di “Campagna lettorale, con le librerie in luogo delle sezioni”, diventa brama di un’autentica rivoluzione che, allo stato dell’arte, può essere solo controrivoluzione. Una suprema presa di coscienza che si tocca con mano, per chi abbia il talento di toccare il polso e comprendere il verso delle pulsazioni. A Villa Filippina, a Palermo, per la presentazione organizzata da LiveSicilia, c’erano illustri testimoni. C’era Davide Faraone, proconsole renziano della Trinacria, c’era Antonello Montante, capo di Confindustria. Hanno visto. Quando l’autore, più che dire, ha gridato: “Sono cresciuto a pane e Bobby Sands, mi sono rotto le corna a favore della Sicilia. Cosa sarebbe la Sicilia se fosse Sicilia!?”, l’ovazione ha raggiunto i decibel del terzo gol di Paolo Rossi al Brasile. Ecco il dono delle parole, l’oro della comunicazione, nel piombo dell’ignavia. Ecco la carovana che visita villaggi e contrade ridotti all’osso. Capo d’Orlando della Fondazione Piccolo, Racalmuto della Fondazione Sciascia, escluse dalle politiche culturali della regione perché la cultura è una testa mozzata ed è almeno pietoso raccoglierla dentro un cesto, per darle degna sepoltura. Ovunque, c’è una fame di politica, di soluzioni, di idee.

 

In questa aria di controrivoluzione, parafrasando l’ex assessore Battiato, Buttafuoco dov’è? Cosa pensa delle miniera che ha scoperto? Pietrangelo continua a viaggiare, a scrivere, da siciliano, cioè da esule, da migrante. Al telefono, colano gocce in agrodolce, ragnatele di un’innominata nostalgia, che gli coprono la voce. “Sono a Orvieto. E’ un posto meraviglioso. E’ come dovrebbe essere la nostra Isola. Meravigliosa di una meraviglia che offre reddito, dignità e protezione. Tutta colpa delle mogli dei deputati dell’Ars che costringono i mariti a restare incollati alla poltrona. Crocetta è lo stato gassoso del potere. Poi ci sono i Lino Leanza, i Totò Cardinale, i Gianpiero D’Alia, la truppa che sa fare politica sul territorio, lo stato solido del potere. Io sono atterrito dalle fotografie scattate dall’Istat. La Sicilia fra dieci anni sarà un deserto assoluto. Confindustria dica basta. Matteo Renzi dica basta. Ci vuole un intervento da Roma, una presa di posizione inequivocabile. Forse qualcosa si muove. Alle presentazioni assistono molti borghesi. E quelli, sia chiaro, non si mobilitano mai invano. Loro non affidano più il cambiamento ai partiti ma alla politica. E la risposta, dunque, non potrà che essere politica. Ecco, non ho perso la speranza…”.

 

Si chiude così, con i puntini di sospensione, dopo l’augurio d’oro finissimo: “Speranza”. Ci si lascia così, da siciliani migranti ed esuli, orfani e prede della Sicilia buttanissima. Non è parola d’offesa. E’ la chiave della controrivoluzione. E’ l’ultimo canto d’amore.

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