Un’immagine dalla mostra fotografica “Visioni tra le rocce”, allestita fino al 30 novembre al Museo della montagna di Torino

Monti di venere

Sandro Fusina

Donne che amavano natura, danza e nudismo. Dall’Europa del nord, attratte dall’oriente e dal mezzogiorno, trovarono l’Eden sulle Prealpi. Erano partite insieme a ragazzi con i capelli lunghi, in fuga dalle università non per mancanza ma per sovrabbondanza di talenti.

La gente del Ticino li chiamava balabiot, con comprensibile disapprovazione. Vestiti con informi camicioni tessuti a mano, qualche volta con la svastica disegnata sul petto, con i piedi calzati in sandali monastici, erano partiti a piedi, Mädchen e Knaben: ragazze con i capelli qualche volta corti, alla paggetto, ragazzi con i capelli spesso lunghi, alla nazarena; spesso, se non di gran censo, di buona famiglia, spesso figli di irreprensibili professori e di sapienti uomini di chiesa e di colte, caritatevoli e severe signore; spesso fuggiti dalle più nobili università del mondo, da Jena, da Tubinga, di regola non per mancanza, ma per sovrabbondanza di doti e talenti, con rammarico dei loro Doktorväter che li avevano laureati magna cum laude. Erano partiti nach Morgenland, verso la terra dove nasce il giorno, erano partiti per la terra dove fioriscono i limoni.

 

[**Video_box_2**]Poiché l’oriente e il mezzogiorno erano punti cardinali non del mappamondo, ma dello spirito, li avevano trovati riuniti appena giù delle Alpi, dove il Ticino forma il Verbano, ancora in Svizzera, presso Locarno, fuori da Ascona: su un rilievo, modesto perfino per le modeste Prealpi, su una collinetta dal nome metà pomposo, Monte, metà scoraggiante, Monascia, dove già altri intellettuali avevano tentato di fondare un convento laico. Avevano cambiato il nome del loro Eden in Monte Verità. Avevano fondato una comunità fluida. Accanto a un nucleo abbastanza stabile, altri ospiti (paganti) passavano, si fermavano il tempo per restaurare l’equilibrio e ripartivano. Fra quelli c’erano in gran numero artisti e scrittori e utopisti d’ogni denominazione, dagli anarchici ai naturisti: c’era chi il viaggio in oriente l’aveva fatto davvero, c’era chi ne aveva o ne avrebbe scritto. C’era Paul Klee nei cui piccoli acquerelli splendeva il sole del Marocco. C’era Hermann Hesse che in oriente c’era stato. Aveva visitato Ceylon, l’Indonesia e la Malesia, ma in India non aveva trovato la forza di penetrare. Era l’India pericolosa del ribaltamento delle convinzioni, l’India della chiaroveggenza e della reincarnazione, della comunità teosofica di Madras (ora Chennai) dove Annie Besant e Charles Webster Leadbeater, gli eredi di Madame Blavatsky, si erano inchinati davanti alla sapienza di un ragazzo di sedici anni destinato a diventare famoso in occidente, Jiddu Krishnamurti. Era l’India del samsara, del legame di vita, morte e rinascita, della realtà illusoria e dell’energia in incessante movimento, l’India del dio Shiva che danzando creava e distruggeva di continuo il mondo.

 

Il finanziere Riccardo Gualino, gran collezionista di antichità e di arte moderna, nel suo ufficio nel Palazzo Gualino, in corso Vittorio Emanuele II angolo via della Rocca, con il quale due giovani architetti razionalisti, Giuseppe Pagano Pogatschnig e Gino Levi Montalcini, avevano sconvolto le quinte tradizionali di Torino, teneva un unico oggetto d’arte, un piccolo bronzo indiano del XII-XIII secolo che ora dovrebbe essere a Palazzo Koch, proprietà della Banca d’Italia in seguito alla liquidazione delle proprietà Gualino. Nelle collezioni di Gualino c’era solo un altro piccolo bronzo indiano, del IX secolo. Lo si può vedere al Museo nazionale d’arte orientale Giuseppe Tucci di Roma, dove la Banca d’Italia, proprietaria per via della stessa liquidazione, lo ha depositato.

 

Entrambi i bronzi, anche se d’epoca e stili diversi, rappresentano Shiva Nataraja (signore della danza) raffigurato nell’atto di eseguire la danza Tandava, simbolo dell’incessante creazione, conservazione e distruzione dell’universo. Nella cosmogonia induista la danza è il protocollo della creazione universale: nei Rgveda gli dèi creano la terra dal condensamento della polvere che hanno sollevato con la loro danza.

 

Non so se il finanziere Riccardo Gualino sia mai stato al Monte Verità, anche se nel 1926, al ricchissimo fondatore, l’olandese Henri Oedenkoven, partito con i suoi per il Brasile a creare una nuova comunità naturista in Brasile, subentrò il ricchissimo barone Eduard von der Heydt, che con il Gualino qualche affinità l’aveva, essendo un grande banchiere e un grandissimo collezionista d’arte (avrebbe fondato con la sua collezione il museo Rietberg di Zurigo). Come Gualino, finito al confino sotto il fascismo, anche Von der Heydt qualche problema politico l’ebbe, di carattere opposto, se nel 1946 fu processato per tradimento, con l’accusa di aver rinunciato alla tessera del Partito nazionalsocialista solo nel 1939, tredici anni dopo essersi trasferito in Svizzera e due anni dopo avere ottenuto la cittadinanza elvetica.

 

Più che un rapporto occasionale con la danza, l’ebbe però la moglie di Gualino, Cesarina Gurgo Salice.

 

Nell’estate del 1913 sul Monte Verità arrivò il già celebre coreografo Rudolf von Laban. La nobile schiatta dei Laban, di lontane origini francesi, apparteneva alla casta militare dell’impero austro-ungarico. Della tradizione familiare Rudolf non aveva ritenuto che l’eleganza dei modi e l’abilità di schermidore, ma alla facile e naturale carriera militare che il padre gli aveva riservato aveva preferito gli studi di architettura a Parigi. Partendo dall’intuizione che movimento e ritmo erano la mediazione tra lo spazio esterno e lo spazio interiore, si era occupato attivamente di danza. A Parigi aveva inventato un sistema rivoluzionario di notazione coreografica che andava sotto il suo nome; a Monaco di Baviera aveva avviato una scuola secondo i princìpi della spontaneità e della creatività individuale. In perfetta consonanza con i principi della comunità del Monte Verità, nata dal desiderio di liberazione dai condizionamenti sociali e del recupero di un sentimento di appartenenza e di comunione con la natura, vi trasferiva nei mesi estivi la sua scuola. Con lui e la sua scuola la danza diventò sul Monte il magnete di tutte le arti, il centro focale di una terapia dell’anima e del corpo che prevedeva un rapporto diretto con la natura. Se era con la danza che Shiva creava e distruggeva il mondo, allora era con la danza che l’individuo e il gruppo potevano pulsare al ritmo della creazione.

 

L’esempio veniva dalle danze tribali delle culture primarie dell’Africa, le cui arti integrate nel rito cominciavano a strabiliare la cultura europea. Non aveva, ancora una volta in Germania, Carl Einstein pubblicato quel piccolo libro intitolato Negerplastik che era forse il primo, e straordinario, studio sulla scultura africana intesa come arte e non come curiosità etnografica? Per recuperare l’integrazione con la natura, i danzatori, come i loro modelli primitivi, si procuravano il cibo coltivando da sé il loro orto, si occupavano di persona della pulizia del loro alloggio e della cucina, si cucivano con ago e filo le tuniche che erano il loro vestito quotidiano e il loro costume di danza, esercitavano per ore il corpo all’aria aperta, in esercizi di tensione e rilassamento, d’equilibrio e di disequilibrio, trovando i movimenti e le figure negli impulsi dello spirito, esprimendo compiutamente e liberamente se stessi in sintonia con tutti gli altri, come i primitivi insomma che non avevano ancora reciso i nervi che li allacciavano all’ambiente, che non dovevano cercare il contatto con la Natura perché erano essi stessi Natura. Tutti siamo danzatori, affermava Von Laban. Era concepibile un membro della tribù estromesso dal rito perché non sapeva i passi? Né la musica era necessaria: il danzatore non aveva bisogno di un ritmo esterno, perché il ritmo, lo stesso della danza di Shiva, lo trovava dentro di sé. La danza libera del Monte Verità non era ancora danza moderna, ma era il seme da cui la danza moderna germinava.

 

La divina Isadora Duncan scendeva ad Ascona per partecipare alla scuola di Laban. E Cesarina Gualino saliva a Parigi e in Normandia per partecipare ai corsi di Isadora Duncan. Accanto a Laban, a Monaco di Baviera e ad Ascona, c’era la grande e inquietante Mary Wigman, che sembra non sapesse guardare se non in tralice. Astro della danza moderna nella Repubblica di Weimar, dove la danza aveva abbastanza seguito perché i protagonisti, ballerine e ballerini, fossero un buon soggetto per raccolte di figurine premio, come i divi del cinema o dello sport, Mary Wigman era lieta di accettare gli inviti che Cesarina le faceva di esibirsi nel teatro che Riccardo aveva comperato, ristrutturato e avviato a Torino.

 

La signora Gualino era anche pittrice, interessante se non eccelsa, e generosa verso i “colleghi”: Jessie Boswell – l’inglese e la donna nel gruppo dei sei di Torino – visse per tredici anni in casa Gualino, con il solo compito di intrattenere gli ospiti, tra l’altro spesso anche suoi amici, suonando il pianoforte. Alla lunga nei rapporti con gli artisti sono però i mecenati che finiscono per guadagnarci. Quanti uomini ricchi e potenti sarebbero finiti nel dimenticatoio del tempo se a ricordarli non ci fossero i ritratti fatti dai loro protetti? La signora Gualino ci guarda ancora da uno dei più bei quadri di Felice Casorati, che della corte Gualino era quasi il pittore ufficiale. E’ come un pannello di trittico, uno di un terzetto di ritratti di famiglia: il padre Riccardo, la madre Cesarina, il figlio Renato. Tutti e tre insieme sono una delle meraviglie e uno degli enigmi del Novecento italiano. Ma qui c’è spazio solo per notare l’abbigliamento e l’acconciatura della madre. Abbigliamento e acconciatura sono parole grosse per un saio seppur scollato, se pur di buon taglio, per una pettinatura con la scriminatura centrale e i capelli alle orecchie, con solo un tocco di messa in piega, stretti da un nastrino che attraversa la fronte per allacciarsi sulla nuca (o non era elasticizzato? Non era forse il marito – tra le altre cose, la vicepresidenza della Fiat per esempio – il re delle fibre artificiali, il presidente della Snia Viscosa?). Mise monastica si dice, e a ragione, non adatta a una signora del bel mondo, se non fosse tagliata su modello dei naturisti di Monte Verità, uno degli episodi di understatement più vertiginosi della storia.

 

Una acconciatura, diciamo analoga?, la sfoggia una delle modelle che ricorre nelle stampe di una insolita mostra fotografica, offerta (fino al 30 novembre, ma fino al 12 ottobre sarà allestita anche una divertente mostra di spartiti di musiche di montagna) dal Museo nazionale della montagna di Torino: per il resto la modella è nuda, ma non sembra né una danzatrice, né una sportiva.

 

Il titolo della mostra suona “Visioni tra le rocce”. Il manifesto relativo tenta di lasciare decidere al lettore se le visioni sono quelle paesaggistiche che ha la ragazza nuda che ci volta le spalle per scrutare l’infinito o sono quelle anatomiche che il visitatore si godrà tra massi e rami contorti di pino cembro. Lo stesso curatore ammette nella presentazione che sulla montagna in sé quelle fotografie molto da dire non hanno. Le ragazze hanno corpi proporzionati, gradevoli, ma morbidi. Non c’è neppure l’ombra delle membra elastiche, dei movimenti scattanti delle fotografie naturiste della Repubblica di Weimar. Per un confronto senza appelli si può sfogliare Die Schönheit deines Körpers, “la bellezza del tuo corpo”, pubblicato nel 1924 da un casa editrice di Stoccarda specializzata in manuali sportivi: lo firma una Dora Menzler, direttrice di una scuola (di danza, di educazione fisica?) che porta il suo nome. Considerato che Menzler è un inequivocabile cognome ebraico, è probabile che la scuola, dopo essere sopravvissuta dieci anni nella asfissiante crisi economica di Weimar, nel 1933, anno di una dedica sul frontespizio della diciottesima edizione, fosse già stata soppressa.

 

I fotografi che portano in giro le loro docili modelle per le Alpi Marittime, per farle appollaiare nude su un picco o sul ramo scabro di un albero, o per farle camminare su rocce taglienti tra lunghi aghi di pino che bucheranno loro la pelle, sono invece uno svizzero e un francese. Georges-Louis Arlaud, di Ginevra, e Marcel Meys, di Parigi, affezionati più che al nudismo filosofico del Monte Verità a tutta la tradizione di nudo della fotografia detta artistica, dai grandi esempi di Constant Puyo (L’eventail, 1898) giù giù fino alla produzione in serie di immagini soft per turisti che in tempo di crisi dovevano essere una risorsa non trascurabile per fotografi e editori.

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