Tutte le lobby, i corpi intermedi hanno le loro colpe. Chissà se Confindustria ammetterà le sue (foto Lapresse)

La fine di Confindustria

Stefano Cingolani

Squinzi (che domani parla al Meeting di Rimini, dopo un lungo silenzio) ha rinunciato ad autoriformare il sindacato degli imprenditori.

Giorgio Squinzi interviene domani al meeting di Rimini rompendo un lungo silenzio. Ospite d’onore all’appuntamento annuale di Comunione e liberazione, deve svolgere un tema da far tremare i polsi: “Riformare l’Italia, la responsabilità della società civile”. Di riforme il presidente della Confindustria parla da sempre e nell’ultima assemblea, il 29 maggio, ha incitato il governo a passare dalle parole ai fatti: “Sulla scheda uscita dall’urna c’è scritto: fate le riforme, ne abbiamo bisogno per ricreare lavoro, reddito, coesione sociale. Non deludeteci”. E a Santa Margherita Ligure, al rituale convegno dei giovani industriali, ha rilanciato: “Il problema vero è fare le riforme, adesso, subito, nei prossimi mesi. Noi ci crediamo, siamo pronti a dare il nostro contributo”. Eppure, il contributo della Confindustria non è stato pari alle aspettative. Così che la lobby, via via diventata sempre meno rilevante, oggi appare persino inutile. Come mai?

 

Con l’uscita della Fiat nel gennaio 2012, la Confindustria non è più quella di prima, mentre l’equilibrio interno si è spostato nettamente a favore delle imprese pubbliche. Non c’è nessun capitalista privato iscritto all’associazione che possa lontanamente rivaleggiare con Eni, Enel, Finmeccanica, le Poste, le Ferrovie e via via tutte le altre aziende a partecipazione statale. Sono loro i principali contribuenti e i grandi elettori. Anche questo ha trasformato quella che per molto tempo era stata la rappresentanza ufficiale del capitale privato in uno dei pilastri del neocorporativismo all’italiana.

 

La triade governo, sindacati e Confindustria ha fatto da supporto all’economia sociale di mercato adottata anche qui dopo la guerra grazie a quella componente democristiana ispirata dall’Ordoliberalismus e dall’esempio di Konrad Adenauer. Non è solo una curiosità ricordare che all’assemblea costituente liberali e comunisti erano entrambi contrari a una istituzionalizzazione del sindacato, gli uni in omaggio alla libertà del mercato gli altri alla lotta di classe.

 

Lo scambio neocorporativo che piaceva ai socialisti e alla sinistra Dc diventa rilevante dagli anni Settanta (l’accordo Lama-Agnelli sulla scala mobile del 1974 ne rappresenta l’atto più rilevante), ma oggi i rappresentanti dei grandi interessi del paese, cioè le confederazioni del lavoro e del capitale, hanno cambiato pelle. I sindacati rappresentano solo una parte del lavoro, quello fisso, a tempo indeterminato e sempre più i pensionati; sfugge loro gran parte del mercato del lavoro, quello delle piccole imprese e dei contratti flessibili. Quanto alla Confindustria, quale autonomia può vantare nei confronti di un governo che, paradossalmente, è esso stesso associato attraverso le aziende che possiede? Certo, i manager di queste imprese non telefonano a Palazzo Chigi ogni volta che debbono prendere una decisione, ma loro vengono nominati dal governo il quale partecipa così al processo che porta alla scelta del presidente della Confindustria anche quando questi è un imprenditore privato con tutti i crismi come Squinzi. Un’anomalia evidente che rende lo scambio ineguale.

 

Il prepotente ritorno dello statalismo, conseguenza della crisi e frutto della eutanasia del capitalismo privato in Italia, muta la Confindustria dall’interno, mentre dall’esterno irrompe il fenomeno che delegittima del tutto il modello neocorporativo: la globalizzazione. Quando la formazione e la distribuzione del valore aggiunto avvengono su scala mondiale, la loro divisione nazionale si fa impossibile; la politica dei redditi o concertazione che dir si voglia, perde così ragion d’essere. I mercati finanziari internazionali che muovono la moneta e gli investimenti da un’area all’altra del globo diventano fattori determinanti della crescita o della recessione, ma anche degli equilibri politici nazionali. Oggi può più lo spread che lo sciopero generale o la serrata del padrone. Quando Renzi va a Londra a incontrare i signori della City prima di ricevere la Confindustria e i sindacati, compie un gesto di realpolitik, dimostra di aver capito come va il mondo, anche se magari non ci piace. Larry Fink, il big boss di BlackRock, viene prima di Squinzi o di Susanna Camusso.

 

I presidenti che hanno guidato la Confindustria durante la Grande recessione e la Lunga transizione, sono stati travolti da questo processo di lungo periodo e i capi sindacali con loro. La rappresentanza degli interessi non è stata cancellata dalla storia, ma oggi contano molto più le rappresentanze locali, quelle aziendali o territoriali. Perché non sembri un discorso astratto, basti ricordare la vicenda Electrolux. La multinazionale svedese degli elettrodomestici che aveva in Italia il punto di forza, colpita anch’essa duramente dalla crisi, minacciava di mollare tutto. La soluzione è stata trovata in Friuli non a Roma, anzi quando Squinzi è entrato in scena, soprattutto nella prima fase, è apparso critico e scettico anche se lo scambio tra meno salario e meno protezioni per salvare i posti di lavoro, sul modello nordeuropeo, è quello che la stessa Confindustria aveva più volte evocato. Per molti, tra i quali Renzi, proprio quello è apparso un laboratorio per la contrattazione nei casi di crisi aziendali e non solo.

 

Se ci fosse oggi un contratto di lavoro unico molto snello, essenziale, a livello nazionale, lasciando alla dialettica interna all’impresa la regolazione degli orari e dei salari di fatto, le confederazioni non avrebbero ragion d’essere, al contrario del sindacato aziendale o tutt’al più di categoria. L’Assolombarda o la Federmeccanica, per nominare le due strutture principali della Confindustria, sarebbero i soggetti importanti. Parallelamente, Maurizio Landini e la Fiom porterebbero in secondo piano Susanna Camusso e la Cgil.

 

Non è facile, dunque, stare nei panni di Squinzi. Ha preso l’azienda di suo padre, la Mapei che fa collanti per l’edilizia, l’ha ingrandita e la gestisce in presa diretta, con mano ferma. Ha conquistato la presidenza come esponente di quel quarto capitalismo che ha tenuto a galla l’Italia, battendo un altro suo pari, Alberto Bombassei, patron della Brembo che produce freni, troppo vicino a Sergio Marchionne. Ancora fresco era lo strappo e la ferita bruciava. Squinzi ha ereditato la frattura e, come sempre si fa, anche lui ha detto “sono il presidente di tutti”; poi ha cominciato qualche mossa del tutto inutile per recuperare la Fiat che stava andando su un’altra strada, navigando nel grande oceano globale.

 

Intanto, l’aggravarsi della crisi italiana ha provocato una serie di scosse telluriche sul sistema politico. Da Monti a Renzi i governi sono stati costretti a prendere o ad annunciare decisioni drastiche rispetto alle quali sindacalisti e confindustriali hanno puntato i piedi e sollevato obiezioni, ma recitando ormai un vecchio copione che non attira più il pubblico. Né risa né pianti né “buuu”, solo indifferenza.

 

Intendiamoci, il potere di veto resta ancora. Basta considerare la spesa pubblica e in particolare quella voce sulfurea chiamata aiuti alle imprese. Analizzata da Francesco Giavazzi anni fa, doveva essere ridimensionata in modo drastico. Già la Banca d’Italia aveva dimostrato che tutti i sostegni erogati dalla seconda metà degli anni Novanta (si tratta di almeno un centinaio di miliardi a seconda come vengono calcolati) non hanno salvato un’impresa e non hanno creato un posto di lavoro. Clamorosa la rottamazione che ha finito per aiutare più i concorrenti della Fiat ma non ha risollevato, se non per un breve periodo, il mercato dell’auto in Italia.

 

Nessun governo è riuscito a metter mano a incentivi, contributi, erogazioni a fondo perduto. Squinzi, nell’ormai lontano 2012, aveva annunciato che la Confindustria era pronta a rinunciarvi in cambio di una riduzione delle imposte sulle imprese, ma tutto è rimasto lettera morta. Come mai? Forse perché la fetta più consistente di questi aiuti di stato finisce alle aziende pubbliche? Che fine farebbero i bilanci delle Ferrovie, delle Poste, delle municipalizzate senza i sostegni ai biglietti, alle tariffe, ai postini delle più sperdute valli?

 

Proprio le tasse che gravano sulle imprese, doppie rispetto a quelle tedesche o svedesi, sono un cavallo di battaglia confindustriale. Ma che cosa ne è scaturito? Quando Renzi, prima delle elezioni, ha annunciato che avrebbe tagliato le imposte, la Confindustria si è schierata subito per una riduzione dell’Irap, come è naturale perché rappresenta la tassa più pesante per l’impresa. Questo era anche il parere di una parte dei sindacati e persino del ministero dell’Economia. Invece, il capo del governo ha scelto gli 80 euro per compensare i salari medio-bassi, misura popolare dal sicuro effetto elettorale. La Confindustria ha ingoiato il rospo, pur ottenendo un contentino. Oggi quei benefici fiscali non sono garantiti, mancano le risorse e si ripropone il problema di finanziarli riducendo gli aiuti alle imprese il che, a questo punto, rischia di apparire come una sconfitta per Squinzi il quale sulla carta si è detto d’accordo.

 

L’atteggiamento verso Renzi è apparso ondivago, quando critico o quando collaterale, pieno di sfide verbali, povero di sostanza. E’ vero, questo governo rifiuta la concertazione, quindi snobba Confindustria e sindacati. Tuttavia ci sono grane, e non di piccolo conto, nelle quali lo stesso Renzi si sarebbe aspettato un ruolo più attivo. Per esempio sul mercato del lavoro. Da una parte Confindustria vuole una riforma del mercato all’insegna della flessibilità ma dall’altra non vuole rompere con la Cgil o arrivare a un redde rationem. Del resto Squinzi disse che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non era una priorità. Prendiamo anche alcune grandi partite industriali.

 

Sull’Alitalia, la Confindustria non è stata nemmeno consultata. E’ vero, gli imprenditori che avevano messo una chip nella precedente gestione sono rimasti scottati, quindi se ne sono tenuti fuori. In ogni caso il destino della compagnia aerea non è un affare di secondo piano. Squinzi ha criticato il coinvolgimento delle Poste paventando l’aiuto di stato. Ma le Poste sono rimaste anche dopo l’arrivo degli arabi di Etihad. Sull’Ilva il presidente della Confindustria ha protestato: “Non esiste luogo al mondo in cui asset strategici possano essere gestiti dalla magistratura in opposizione col potere legislativo”. Però il governo ha deciso per proprio conto affidandosi al commissario Piero Gnudi il quale invita gli emissari di ArcelorMittal in fabbrica per dare un’occhiata prima ancora di sapere se vogliono davvero aprire un negoziato che vada al di là del generico interesse.

La vocazione riformatrice a lungo sbandierata si è risolta in dibattiti e convegni. Non viene valorizzato a sufficienza nemmeno il lavoro di un impeccabile centro studi. Ha azzeccato le previsioni sulla congiuntura, a differenza delle cifre fornite dal ministero dell’Economia, ma non detta l’agenda perché la Confindustria non riesce a diventare un polo del dibattito economico che si svolge su altre dimensioni.

 

Matteo Renzi potrebbe trovare in tutto ciò la conferma delle sue convinzioni, cioè che il tempo della concertazione è terminato. Del resto, non ha partecipato nemmeno all’Assemblea, l’annuale messa cantata. In realtà, l’irrilevanza preoccupa persino lui. Adesso che deve affrontare alcuni passaggi delicati (e non solo sul mercato del lavoro), una voce autorevole da Confindustria gli avrebbe fatto comodo se non altro per controbilanciare il coro dei no sindacali.

 

Non solo. Squinzi denuncia giustamente tutti gli ostacoli esterni all’attività imprenditoriale. Ma l’atteggiamento rinunciatario di molti industriali non è un grande ostacolo interno? La Banca d’Italia ha dimostrato che gli investimenti delle imprese in Italia sono sistematicamente inferiori a quelli degli altri paesi europei, un tempo si chiamava serrata padronale, oggi potremmo dire che prevale un atteggiamento cautelativo. Che cos’è? Timore, sfiducia, incertezza, fuga dal rischio? Ma l’amore per il rischio non è il sale del capitalismo? Non è questa la via per il ritorno alla prosperità come scrive l’economista Edmond Phelps nel suo ultimo libro?

 

Non solo. La Confindustria denuncia che le banche non prestano a chi ne ha bisogno. E che cosa dice di tutti i salvataggi di imprese decotte nelle quali le banche hanno aiutato grandi imprenditori a non pagare il conto dei loro fallimenti o delle loro sconfitte? I banchieri dovevano salvare i propri investimenti, tuttavia lo hanno fatto seguendo una logica non di mercato, ma da capitalismo clientelare. L’elenco è lungo e va da Romain Zalesky a Carlo De Benedetti.

 

Squinzi si rende conto della crisi associativa e, siccome è un uomo concreto, conosce bene percorso e limiti del proprio mandato. Ha lanciato una riforma istituendo una commissione affidata a un erede della grandi famiglie come Carlo Pesenti. Nel maggio 2013 è stato approvato un documento che delinea un’associazione snella, vicina alla base, flessibile, concentrata, compatta, rigorosa. Insomma, un profluvio di aggettivi inappuntabili. Eppure, resta in mezzo al guado: la vera riforma sarebbe trasformarsi in un pensatoio con ufficio di coordinamento per imprese e territori, limitato alle aziende private; quando quelle di stato saranno diventate public company, potranno rientrare. Fare chiarezza, delimitare ambiti e mestieri, tutti ne hanno bisogno, dagli associati alla Confindustria al paese intero. La confusione dei ruoli riduce la responsabilità e la trasparenza, l’accountability come si ama dire.

 

“Fate presto”: il 10 novembre 2011 in uno dei momenti più drammatici quando tutto stava per crollare e la Banca d’Italia stava già studiando la chiusura delle banche, a corto di denaro contante, con questo titolo il quotidiano confindustriale, il Sole 24 Ore, sosteneva un governo di emergenza nazionale, appoggiava il pensionamento a 67 anni, la mobilità nel pubblico impiego, liberalizzazioni e privatizzazioni. La riforma delle pensioni è stata fatta, il resto è in lista d’attesa. Colpa della burocrazia (ci sono 800 provvedimenti attuativi in stand-by), tuttavia non è l’unico ostacolo, esistono le resistenze occulte e quelle manifeste, c’è il popolo del no, e poi c’è la debolezza del profeta disarmato, di chi le riforme le invoca soltanto. Tutte le lobby, i corpi intermedi tra il popolo e il governo, le strutture della società civile o comunque le si voglia chiamare, hanno le loro colpe. Chissà se Squinzi ammetterà quelle della Confindustria? Medice cura te ipsum.

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