Ieri era Gary Cooper a dilettarsi, anche se per gioco, con i lavori a maglia. Oggi tra gli attori non nascondono il loro interesse per i ferri Russell Crowe e Ryan Gosling

L'uomo all'uncinetto

Fabiana Giacomotti

Non guardatelo male: anche se poi fu Berta a filare, maglia e ricamo sono nati per mano maschile. Russell Crowe con i ferri e una sciarpa a punti grossi sul set del “Gladiatore”, Ryan Gosling che si rilassa con i lavori a maglia.

Pare ci sia sempre qualcuno più veloce del presidente Obama, ultimamente. “Sei gay?”, puntualizza col cassiere del supermercato di Austin che gli ha domandato “uguali diritti per gli omosessuali”, e quello, pronto: “Solo quando faccio sesso”, che è una bella versione del “solo quando rido” dei drammoni romantici anni Ottanta, e una trascurata verità, e cioè che si è gay, etero o cultori indifferenziati della materia solo quando si fa sesso, non mentre si passano trecento dollari di costine e salsicce sotto il lettore ottico e si è comprensibilmente preoccupati per la tenuta delle coronarie del presidente, che è anche il possibile motivo della richiesta sul futuro delle riforme sociali negli Usa. D’altronde, volendosi mettere nei panni di Obama, è pur vero che abbiamo tutti bisogno di semplificarci la vita, per cui ci aspettiamo che se uno ci domanda di firmare una petizione per la liberalizzazione delle droghe leggere la mattina non vada a spacciarne la sera, che uno stilista sia almeno effeminato (Roberto Cavalli è infatti un’eccezione, e comunque quando lo si porta a esempio, tutti nell’ambiente si affrettano a specificare che “non disegna”) e che un idraulico avviti donne con la stessa abilità che riserva ai tubi di scarico del lavandino, e questo a dispetto dell’evidenza che la salopette blu tipica della categoria sia un capo simbolo dell’immaginario gay. Ci sono troppe notizie e troppe sollecitazioni in giro per poter passare il tempo a domandarsi se il taglio un po’ attillato della giacca del collega indichi le sue preferenze sessuali o se il fiorista dell’angolo che mescola iris e fiori di campo con tanta abilità abbia un compagno prestante e non una mogliettina fresca di parrucchiere che lo aspetta a casa.

 

Il sociologo francese Frédéric Martel, autore del nuovo, battagliero bestseller della categoria, “Global gay”, ha girato mezzo mondo intervistando attivisti omo che sembrano tutti proprietari di bar (birra, video e wi-fi gratuito), dirigenti televisivi, molti dei quali dichiaratamente “traditi” dal Líder máximo e dal mito del comunismo (“eravamo maoisti, trotzkisti o castristi, poi un giorno ci siamo tutti resi conto che erano dittature omofobe e che il vento della liberazione non soffiava dall’est ma dagli Stati Uniti”), banchieri (“XXX ha lasciato il completo grigio, i gemelli e la cravatta rossa: è in jeans e non si distinguerebbe dagli altri clienti dello shopping mall se, all’inizio della serata, durante un evento culturale, l’organizzatore non l’avesse salutato pubblicamente suscitando un lungo applauso nella sala”, e poi ditemi voi dove nascono i pregiudizi). Stilisti intervistati nell’inchiestona stampata manco uno, a dimostrazione che semplificare è molto naturale e molto comodo, e in Italia e in certi campi sarebbe pure comodissimo, ma che a farlo si rischia di prendere degli abbagli e pure di passare per scemi, e noi donne che contro il dualismo manicheo della strega e della madonna abbiamo costruito movimenti, proteste e talvolta splendide carriere dovremmo saperlo bene. Lamentandoci più dei maschi e in progressione geometrica (“dimmi che è così / perché non vuoi dirmelo / potresti almeno dirmelo / dài dimmelo e facciamola finita”), abbiamo reso nota al mondo da decenni la nostra insofferenza nei confronti della categorizzazione, e cogliamo ogni occasione per ribadirlo.

 

Qualche settimana fa, per esempio, abbiamo salutato con una salva di invettive persino la pubblicazione di un’indagine sui mestieri rappresentati nei libri per bambini, che risultavano essere molto ricchi e variegati fra quelli svolti dai personaggi maschili, e molto limitanti per quelli femminili. Perché a una bambina dovrebbero essere proposti modelli riduttivi come la contadinella scalza, la maestra o la principessa vestita di raso, abbiamo chiosato su tutti i media disponibili compresi i nostri profili facebook, quando ai maschi è permesso di immaginarsi astronauta, aviatore, esploratore e medico misericordioso, e io che ho rotto i ponti con mio padre perché appunto non volevo diventare un angelo del tavolo operatorio ma mi figuravo intere classi a cui far leggere Flaubert, ho subito compreso quali limitazioni avessi subito dalla lettura in tenera età della “Piccola Dorrit” e di “Sara Grewe reginella prigioniera” e dal possesso della roulotte di Barbie.

 

In compenso, sempre a quanto leggo su Facebook, noi donne che non vogliamo farci incasellare nel cliché della bella-e-scema incorniciamo di emoticon con le guancine rosse e di punti esclamativi la bella faccia di Ryan Gosling che dichiara di non essersi “mai rilassato tanto come il giorno in cui ha imparato a fare la maglia” (girava “Lars e una ragazza tutta sua”, la storia di un tipo che se la fa con una bambolona in silicone, d’accordo, ma a usare i ferri ha imparato davvero) e Russell Crowe con un ferro in mano, e non era una daga perché ne pendeva una sciarpa a punti grossi, sul set del “Gladiatore”. Anche senza voler sottolineare come due degli stili e delle montature a maglia più famose, cardigan e raglan, prendano il nome da due generali inglesi, e pazienza che entrambi siano legati alla carica di Balaklava che non è di certo la pagina più scintillante della storia occidentale, si dice che lo sviluppo della razza umana sia iniziato tanto con l’affilatura della prima lancia che con l’intreccio di una rete da pesca (è dura tirare su un pesce per volta se nella caverna ti aspettano in quindici), ed è assodato che siano stati gli uomini a inventarle.

 

E’ anche noto, e in questo caso dato per certo, che le gilde medievali dei magliai non accettassero donne fra le proprie fila. La calza, come si dice, la facevano solo gli uomini, o perlomeno la commercializzavano in esclusiva: gli “chapeliers de gants et de bonnets”, guanti e cappucci, menzionati a Parigi nel 1268 e tutti barbuti, magari non occupavano una posizione di rilievo nella scala gerarchica delle confraternite cittadine; però guadagnavano molto ed erano anche nelle condizioni di protestare in massa se un nuovo attrezzo per la filatura non risultava di loro gusto, tanto che tre secoli dopo, in anni ugonotti, usarono il tesoretto per finanziare la lotta alla corona di Francia. Provate ora a chiedere agli esperti (non italiani, ma anche) di maglia: vi diranno che il testo più famoso, l’imperdibile da conservare e tramandare ai nipoti è “The history of hand knitting”, scritto nel 1987 da Richard Rutt, vescovo di Leicester poi convertito al cattolicesimo, autore altresì di una pregevolissima storia dei missionari in Corea (terra dove aveva servito nel proprio apostolato giovanile), benché di certo meno nota dell’esegesi dello sferruzzare.

 

Il ricamo ha natali ancora più altolocati, e tutti per mani maschili. Adesso, il manager che si mostra abile nel piccolo raso o il punto stuoia viene immantinente intervistato dalla redazione moda di Repubblica e guardato di sottecchi dai colleghi. Sette secoli fa, gli addetti al ricamo erano esclusivamente uomini, e molti di loro originari della regione ufficialmente più maschia d’Italia, la Sicilia, tanto che le più famose botteghe artigiane di opere d’arte a ricamo nacquero quasi esclusivamente dalla diaspora successiva ai Vespri siciliani del 1282, collaborando con gli atelier dei pittori dai quali acquistavano i cartoni dei disegni per mantelli, arazzi, sedie e baldacchini, cioè non diversamente da quanto avrebbero fatto le sarte del Novecento comprando i cartamodelli della maison Dior, sarto di nome Christian e al di là della solita questione delle preferenze sessuali. I romani andavano pazzi per i fregi, i ricami degli schiavi e degli artigiani della Frigia, e proprio a Palermo, perché da qualche parte o da qualcuno certe abilità devono non solo trarre origine ma anche supporto, Federico II aveva istituito il “Tiraz”, in persiano ricamo, leggendario laboratorio artistico di opere su tela. A metà del Quattrocento i ricamatori si erano organizzati in corporazioni anche a Siviglia, pronti a difendere i propri privilegi a colpi di ascia, quando non fosse bastato l’ago.

 

Affari di maschi, insomma, e dunque confortati dalla pubblica approvazione e da un generale interesse, tanto che proprio grazie a queste condizioni favorevoli il ricamo iniziò a godere di applicazioni diverse e di larghissima diffusione, nelle case e nei palazzi, nelle chiese e nei conventi. Le donne, come Berta, filavano, cioè avevano lo stesso ruolo delle operaie nel semilavorato, dunque erano private della possibilità di esercitarsi e di figurare come artiste, oppure tessevano tele e successivamente tappezzerie, in senso proprio e figurato. Il ricamo è una conquista datata Quindicesimo secolo, così come la possibilità di tagliare vestiti, mantelle e cappotti fu attività vietata alle donne fino all’Ottocento. Dunque, come la mettiamo con le apparenze gay e i lavori esclusivi, consigliati o a predominanza maschile? Dipendono in buona parte da momenti e da opportunità storiche, sebbene non ci siano dubbi che certe abilità, diciamo quelle di muratore ma anche di pilota di caccia, siano davvero quasi ed esclusivamente maschili e gliele lasciamo volentieri, considerata la fatica, il sudore e la soddisfazione non sempre commisurata allo sforzo.

 

In compenso, mentre noi ci lamentiamo a ogni agitare di carta straccia, la categoria dei maschi, già massacrata da anni di dissertazioni vacue da rivista per signore (“tu scegli l’uomo macho o l’uomo micio?”) e infiniti consigli su come “far emergere la parte femminile di sé”, ovvero cambiare il pannolino al pupo di casa e approfondire “che cosa c’è di sbagliato nella nostra relazione”, soffre di un dualismo simbolico in tutto simile a quello sul quale noi siamo scese in piazza per anni: puttana o madonna contro macho e micio, appunto; in inglese macho e wimp, l’equivalente d’oltremanica dell’omuncolo e del quaquaraquà. Da una parte Rambo che affronta le foreste del Vietnam a petto nudo e senza spray antizanzare; dall’altra il floreale Georgie di “Lucia a Londra”, giusto per citare il personaggio più riuscito del deliziosissimo romanzo di Edward Benson, autore dimenticato degli anni Venti appena ristampato da Fazi, che teme di essere sorpreso dal maggiordomo col parrucchino di sghimbescio.

 

Prima della coppia Jack ed Ennis di “Brokeback mountain” (nel 2005 George W. Bush, credendo di recuperare posizioni per il fronte macho-conservatore, andò davanti a una platea di potenziali elettori giurando di non aver visto il film ma di “conoscere bene la vita dei veri cowboy” scatenando un diluvio di risate: ormai era andata) il cowboy più discutibile mai apparso in pubblico era Randy Jones dei Village People che sbeffeggiava i “macho man” e le regole del Ymca “wanna feel my body babe?”. In tutto questo, il grande agitarsi omosessuale pare non abbia fatto granché bene alla categoria e alle sue rivendicazioni. La gente fa in fretta a tirare conclusioni e a cercare di semplificarsi la vita e le attività intellettuali, come si scriveva all’inizio, per cui è un fatto che gli adolescenti di Milano definiscano come “stile gay”, “roba gay”, qualunque espressione di creatività o di stile personale appena vistosa o sopra le righe, naturalmente sbagliando ma sapete come vanno le cose.

 

Quirino Conti, architetto dai molti talenti che ha appena curato una bella mostra per Piero Tosi a Spoleto, mi raccontava qualche tempo fa, in occasione della stesura di un libro sul costume televisivo, quanto la tv fosse più libera quando i costumi erano più austeri e il racconto, fatto per luoghi comuni rozzi, per sottintesi, sguardi e battute salaci, attraverso uomini scelti con cura a questo scopo, in realtà accoglieva, capiva e tollerava ogni altra espressione di genere e di scelta. “Appariva in quell’oblò retroilluminato una forma Dc appena ingessata, con scarpe lustrissime, vagamente funerea. Era un codice che valeva per le previsioni del tempo come per il varietà, e che però consentiva al maschile di poter occultare una parte esteriorizzabile della sua creatività; uno scafandro consentiva una profondità mediatica assolutamente irraggiungibile con un altro abito e un’altra forma”. Una corazza protettiva di “felice vedovanza” che a Conti ricordava un po’, e non a caso, la prima descrizione di Charlus nella “Ricerca” proustiana: “Anche in televisione, non fosse stato per il baluginìo del calzino che dava una nota appena più azzardata, da uno sguardo rapinoso, capire e penetrare certi segreti sarebbe stato impossibile”. Comunque, avrebbe portato a errori e generalizzazioni, al “sono gay solo quando faccio sesso”.

 

Negli anni della roulotte di Barbie, veniva a giocare con me l’amichetto del piano di sopra, tale Paolo. I genitori, che avevano intuito pasticciasse con le bambole, venivano a riprenderselo la sera con un’espressione che adesso intuisco essere imbarazzo. Si era alla fine degli anni Sessanta, bisogna capire. Nessuno di noi due, lui tanto meno, credo, si è mai premurato di spiegare che Paolo le Barbie le spogliava tutte, una dopo l’altra, le osservava con cura e poi le metteva a cavalcioni di Ken.

Di più su questi argomenti: