L'esame di settembre sarà in banca

Ugo Bertone

Non solo Siena. Dal Monte in giù avanza lo stress delle fusioni bancarie. L'incognita del credito italiano, tra beghe locali e stress test.

Milano. La ripresa italiana è un po’ come Godot: oggi no, ma domani verrà. O forse no. E’ con spietata ironia che il Financial Times illustra la terza recessione dell’economia italiana in sette anni, record negativo che già ha spinto Moody’s a prevedere che, addirittura, quest’anno il pil chiuderà in rosso. Ma chi meno degli altri può permettersi di stare fermo ad aspettare gli eventi come i personaggi di Beckett è il sistema bancario che, al contrario, mostra alcuni segnali di ricaduta. A partire dal Monte dei Paschi, il vecchio lupo del credito che ha perso buona parte del pelo ma non certi i vizi. I conti della banca non brillano di sicuro, nonostante i cinque miliardi versati soprattutto da nuovi soci nell’ultimo aumento di capitale, e finiti in buona parte a restituire 3 miliardi su 4 di prestiti pubblici ricevuti (con i relativi interessi).

 

Ma forse, a spaventare i compagni della cordata coagulata attorno alla Fondazione Monte Paschi, cioè i brasiliani di Btg e Fintech, non è tanto il “rosso” più pesante del previsto (353 milioni) o la crescita del 17 per cento dei crediti deteriorati, a conferma della crisi della clientela. A sconvolgere i banchieri del Nuovo mondo, fortemente tentati dal levare il disturbo, sono i traffici che accompagnano, come se nulla fosse, la nomina del successore di Antonella Mansi alla guida della Fondazione: un tormentone che ha spinto ieri a convocare un conclave dei 14 membri della deputazione generale alla ricerca del consenso sul nome di Bettina Campedelli o di Marcello Clarich dopo la fumata nera del 30 luglio. Duello all’ombra del Palio che s’è protratto fino a tarda sera: dopo cinque ore di consiglio, alle 20.00, è stato eletto Clarich, docente di Diritto amministrativo alla Luiss di Roma, con 11 voti, il minimo indispensabile. Difficile, dopo uno sceneggiato del genere, convincere gli gnomi di BlackRock, York e così via che a Siena le cose sono finalmente cambiate per sempre. La Fondazione resta “vittima di condizionamenti ambientali” (Mansi dixit). Ancor più difficile che a cambiare le cose riesca Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri e grande consigliere di Mansi nella ricerca dei partner: pare sia il più arrabbiato, furente coi senesi.

 

Non è solo questione di Siena. Qua e là s’infittiscono i segnali di disaffezione dei money manager americani per la finanza di casa nostra dopo i grandi entusiasmi di primavera. Certo, le due ammiraglie del credito nostrano, Intesa e Unicredit, hanno dimostrato con i conti a metà anno d’essere in grado di superare gli esami europei, grazie a un core tier 1 superiore al 10 per cento. Ma, a proposito degli esami di Francoforte, le ultime direttive della Banca centrale europea sembrano fatte apposta per introdurre nuovi ostacoli per gli istituti dei paesi più fragili: oltre agli esami individuali, le banche dovranno passare valutazioni di sistema, compresi stress test attualizzati con la congiuntura degli ultimi mesi. Non saranno esami di routine, per le banche del sud Europa, soprattutto dopo il tonfo a sorpresa di Banco Espirito Santo. E per le banche italiane di medie dimensioni, a partire dalle popolari, si profila una stagione movimentata.

 

Nessuno s’illuda, dopo gli aumenti di capitale (e l’arrivo di investitori internazionali decisi a fare buoni affari) che il più del lavoro sia fatto. Con l’eccezione di Unicredit (patrimonio di 841 miliardi) e di Intesa (628 miliardi), il sistema tricolore del credito è fatto di nani, con gravi limiti sul fronte dell’efficienza. Dietro Mps, terzo dei grandi o primo dei piccoli (196 miliardi), ci sono solo istituti medio-piccoli: la somma del patrimonio delle banche che occupano dalla quarta all’ottava posizione non arriva alla metà di Unicredit. Ma i limiti dimensionali hanno un immediato riflesso sull’efficienza. In Italia ci sono ancora 54 filiali ogni 100 mila abitanti, contro una media di 39 nell’Ue, con gravi riflessi sui costi. Un equilibrio fragile che rischia di andare in frantumi coi prossimi esami europei, che potrebbero imporre nuovi aumenti di capitale soprattutto se scricchiolerà la diga dei Btp. O, più facile, una stagione di fusioni e tagli robusti dei doppioni nelle tante baronie della finanza di casa nostra: le banche, spesso, non soltanto sono troppo piccole, ma faticano a liberarsi di sistemi di governance clientelari e dispendiosi. Eppure stavolta Godot dovrebbe arrivare per davvero.

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