L'ultima sventagliata

Napolitano rivendica le ragioni dell'età, ma con ottimismo sulle riforme

Salvatore Merlo

“Non sono frutto di improvvisazione e improvvida frettolosità”. “Non si agitino spettri”. L’aria da fine regno. Renzi, Boschi, il Cav. evocato.

Lascerà, lascerà il Quirinale prima che scadano i sette anni. E il 31 dicembre, il discorso di fine anno potrebbe essere anche quello dell’addio. Le riforme sono avviate, al governo c’è Matteo Renzi, la cosa all’incirca funziona, e l’Italia politica ha trovato un equilibrio pur nel suo perpetuo marasma, fra contraddizioni ed eccessi, riformismo protervo e resistenze corporative. “Le riforme non sono frutto di improvvisazione e improvvida frettolosità. Non si agitino spettri di insidie e macchinazioni autoritarie”, dice dunque Giorgio Napolitano, che con quel suo modo ricco, pignolo e felpato d’esprimersi è lontano dalla grammatica piana, ma non dal contenuto, delle parole di Matteo Renzi: “Togliete i sassi dai binari delle riforme”. Nel fastoso Salone degli arazzi, al Quirinale, il presidente della Repubblica si rivolge a una platea composta da giornalisti, direttori di quotidiani, editorialisti, membri della stampa parlamentare venuti a consegnarli il ventaglio, come ogni anno. Ma già subito tira un’aria strana, tiepida, di fine ciclo.

 

Il salone non è precisamente affollato, molte delle sedie riservate agli invitati sono vuote: i giornalisti sono i più sensibili e reattivi a tutte le manifestazioni dello spirito politico, e del potere. Sanno apparire e sparire. Dunque tutto ha un senso, rende la misura d’un tempo scaduto. Ed è il presidente vegliardo a dirlo, col suo misto di compitezza, realismo e orizzonti temperati: “Credo che non si debbano dare interpretazioni estensive del mio riferimento a situazioni e necessità, essenzialmente istituzionali, che possano giustificare, far considerare opportuna e utile una mia ulteriore, eccezionale permanenza nell’incarico. Noto che si tende a omettere la riserva da me più volte richiamata, relativa alla sostenibilità, dal punto di vista delle mie forze di un pesante carico di doveri e funzioni”. E insomma è lui stesso a far piazza pulita di quel misto di verità e di sciocchezzaio elegiaco che fa di Napolitano un dispositivo prima ancora che un uomo, un congegno in grisaglia e panciotto che provvede a svolgere funzioni. Lasciare il Quirinale, dice, “è una valutazione che appartiene soltanto a me, sulla base di dati obiettivi, che hanno a che vedere con la mia età”.

 


Ed è come se il presidente della Repubblica volesse anche dare il senso di una missione compiuta, o ben avviata a compimento. “Le riforme non sono frutto di improvvisazione e improvvida frettolosità”, ha detto, a difesa del governo, della giovane ministro Maria Elena Boschi apparsa parecchio in difficoltà, lunedì, in Parlamento. Parole, quelle di Napolitano, a difesa del premier ragazzino, di Renzi, e persino del patto del Nazareno, l’accordo con quel Silvio Berlusconi che pure Napolitano, nel suo discorso, non cita mai, mai esplicitamente, ma al quale dedica un passaggio significativo sulla giustizia quando dice che “si delineano forse le condizioni per una condivisione finora mancata, partendo finalmente dal riconoscimento, che è stato espresso nei giorni scorsi da interlocutori significativi, per l’equilibrio e il rigore ammirevoli che caratterizzano un silenzioso lavoro della stragrande maggioranza dei magistrati italiani”. Ed era stato il Cavaliere, la settimana scorsa, appresa la notizia d’essere stato assolto a Milano, a dedicare un inedito “pensiero di rispetto alla magistratura, che ha dato oggi una conferma di quello che ho sempre asserito, ovvero che la grande maggioranza dei magistrati italiani fa il proprio lavoro silenziosamente, con equilibrio e rigore ammirevoli”.

 

Missione compiuta, dunque? Forse, quasi, manca poco, “la riforma elettorale andrà ridiscussa con attenzione”, ha spiegato Napolitano. E lui sarà “concentrato sul semestre europeo a guida italiana”. Il presidente ha ereditato il caos delle elezioni “non vinte” da Pier Luigi Bersani, ha poi cercato in Enrico Letta una soluzione, infine forse non ha voluto ma ha rispettato e accompagnato l’ascesa di Renzi, che gli sarà pure estraneo per anagrafe, cultura e linguaggio, ma che è per lui, come Letta e come Monti prima di Letta, un altro presidente del Consiglio da guidare, nel marasma, verso un approdo di stabilità e di ordine istituzionale. Il presidente vegliardo prende atto degli equilibri parlamentari, e dunque sin dall’inizio ha guardato Renzi con occhi che non esprimevano consenso e nemmeno rifiuto: il ragazzino di Firenze incarnava, e incarna, per Napolitano, la fatica stessa della politica. Ma adesso al presidente quella fatica deve forse apparire ricompensata da una certa capacità di tenuta del nuovo potere renziano, persino dello strano asse Cesano Boscone-Via del Nazareno, con quel “tentativo di revisione della seconda parte della Costituzione” che il presidente ieri ha invitato a difendere criticando tutto ciò che mira al sabotaggio: “Non deve prevalere la pregiudiziale di diffidenza e contestazione”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.