Addio rigatoni

Fabiana Giacomotti

La tavola è il nuovo palcoscenico delle idiosincrasie, dei nervosismi, delle antipatie cromatiche (l’insalata solo verde, grazie, la varietà di colori mi disturba) e di piagnucolii sulle sorti dell’animale “stroncato nel fiore degli anni mentre volava felice” come il piccione della scenetta fra Eduardo e Totò.

Fra i quarantenni cresciuti in anni ricchi e politicamente scorretti, il fantasma dei rigatoni Barilla compare più o meno alla terza portata descritta dal capocameriere fino all’ultima goccia di olio, il più flebile profumo di mirto, la più piccola cucchiaiata di confettura di cipolle di Tropea che guai se non arrivassero proprio da lì perché è ovvio che tu, dopo averle assaggiate, le respingeresti fra i gesti costernati dello chef e gli sguardi di ammirazione degli altri commensali, grande ristorante o bar sotto casa non ha importanza perché la degustazione è ormai un argomento di dibattito anche fra le bancarelle del mercato rionale.
Mentre cerchi di identificare fra le sfogliatelle di orata cruda i “fiori eduli” nascosti (in effetti qualcuno che insegna il latino è rimasto), è quello il momento in cui sbuca la memoria dei rigatoni: “Buonasera signora, vorrei permettermi di suggerirle consommé d’Orléans, soupe Colbert, gelée de bouillon, crêpe Walewska”. “Rigatoni”, rispondeva lei, fresca di messimpiega, un sorriso beato sulla bocca socchiusa a mostrare una chiostra candidissima, mentre il maître colpito al cuore accennava un sorriso trionfale, la signora sì che se ne intende e “tutti in coro diciamo pasta Barilla”, che era una presa per i fondelli delle pubblicità già state e delle ossessioni future, perché Fellini ci prendeva anche quando non ci prendeva affatto come in questo caso. Lo spot, tale quale una successiva sceneggiata onirica per la Banca di Roma, fu infatti un disastro commerciale fra le signore che compravano la pasta (si era in anni ancora vagamente femministi e combattivi, non in quelli attuali di maratone del sesso orale nei bar di Maiorca, chi supera quota venticinque in fila e in pubblico vince una bottiglia di vino da tre euro, ma si sa che si gareggia per partecipare, non per vincere, anche se l’ultimo rifiuta il servizio perché gli fa un po’ schifo); entrò però nel lessico comune, accostando per sempre un formato di pasta corta senza gloria e una metafora mai uscita dai territori della Gradisca, all’immaginario di un’intera nazione. Il rigatone fu una tale scossa che anche adesso chi lo evoca ricorda, sbagliando, una modella provvista di fessura fra gli incisivi come Lauren Hutton, gloria di quegli anni e di quei sogni, certo non di quello spot da autogol.

 

[**Video_box_2**]Mentre Barilla riparava all’ombra dei mulini bianchi e delle adozioni internazionali (si era in tempi appunto scorrettissimi, oggi sarebbe saltata fuori un’associazione di genitori de facto reclamando attenzioni istituzionali e scuse pubbliche, per quale motivo non si sa, giusto per farsi sentire e strappare un paio di titoli sui giornali), gli italiani riscoprivano il valore erotico del cibo, mai più frequentato con tanta franchezza dai tempi dell’Aretino, e anche la gioia di tappare la bocca agli officianti del gusto, all’epoca ancora incerti, stretti fra il carpaccio e il Bellini col crostino di merluzzo mantecato, solo cucina veneziana perché il capostipite di tutto quello che vediamo adesso non è Gualtiero Marchesi e tanto meno Antonin Carême, ma Arrigo Cipriani. La brandizzazione della tavola è roba sua, abate e officiante della rucola yuppie. Gli chef alla Bastianich ci hanno solo messo l’impeto dei chierici benedettini e il piglio degli yamabushi, i monaci guerrieri del Giappone medievale, oltre a una dose di insulti pop che fa la gioia degli spettatori delle varie cucine infernali televisive come un tempo i reziari nell’arena: “Da dove arriva questo salmone? E’ canadese o scozzese?”. “Non lo so chef”. “Sei un coglione, questo piatto è una merda, se fai un piatto così a casa ti buttano fuori di casa”. Oggi, di quei sommi sacerdoti siamo tutti succubi. Ristoranti stellati o, appunto, bar con aperitivo rinforzato in piazza, mai che si possa portare alla bocca quel che è stato servito in tempi ragionevoli e scoprendone da soli i sapori, godendone magari anche l’incanto, che farebbe pure parte del piacere, anzi del “percorso emozionale”. Macché. Tutto dev’essere spiegato, argomentato, sezionato, analizzato con la pazienza di un entomologo. Effetto sorpresa zero, come se Trimalcione, prima di far servire le uova di pavone a Encolpio e al bel Gitone, li avesse avvertiti che, dentro, vi avrebbero trovato un beccafico bello grasso, spiegandone pure le fasi di cottura. Adesso, afferrare la forchetta prima che il capocuoco abbia concluso la sua litania è un po’ come inginocchiarsi all’alleluia: se non si viene fulminati, si è comunque dei senzadio. Il contegno adatto è fissare in silenzio piatto e portata, il capo leggermente chino ad accettare la benedizione di quelle cipolle, dell’asparagina bordo fiume, del cavolo cappuccio coltivato con amore, dell’emulsione di zafferano e della spuma di pesce, che sono tutte cose bellissime a vedersi e forse anche da imparare, non fosse che nel frattempo il cibo si fredda e gli entusiasmi pure. Ma vi pare che mrs Waters si sarebbe beccata il pistolotto dell’oste sulle ostriche piatte della Bretagna prima di sedurre Tom Jones facendosene scivolare una in gola? Gliene sarebbe passata la voglia. E a proposito. Siamo tutte autorizzate ad alzarci da tavola al prossimo “sentore di aromi fruttati” esalato dal bicchiere di vino del nostro accompagnatore, che per maggior misura, non avendo appreso che i rudimenti della materia sulle reti tv on demand, ci ha infilato dentro una spanna di naso e poi si è messo a farlo roteare con vigore centrifugo. Todos caballeros, anzi sommelier. Una compagnia di smargiassi del Sassicaia di cui sorride Antonella Amorelli, fino a poco tempo fa coordinatrice di Riso, il Museo d’arte contemporanea della Sicilia: lei, che sta mettendo a frutto anni di contatti e legami internazionali nel progetto artistico-culinario Amor food con l’obiettivo di dare visibilità a dieci produttori di eccellenza della regione attraverso una prossima mostra documentaristica itinerante di videoinstallazione curata da Giovanni Iovane, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Brera, per selezionare produttori di pistacchi, di lenticchie e persino origano, e garantirne la tracciabilità, si è affidata a un agronomo: “Una cosa è gustare, un’altra sapere e capire”.

 

Eppure, da quando mangiare è diventato un fatto culturale, di stile, di mostra di sé (e se Milano sul tema ha vinto l’Expo qualcosa vorrà pur dire, scandali a parte) pare impossibile affrontare una cena o anche una colazione di lavoro senza fare sfoggio del proprio arsenale di conoscenze sul tema. Più che incrociare le posate, si incrociano le spade, in un rimando continuo di informazioni, più o meno raccogliticce, e di vanaglorie moschettiere su pranzi passati, futuri, immaginari. Stefano Guazzo, l’autore della “Civil conversazione” che a metà del Cinquecento consigliava al duca di Mantova Vespasiano Gonzaga di tenere beccacce e sanguinacci fuori dalle chiacchiere dei convivi, ne sarebbe morto. Oggi il cibo si parla, si legge, si discute, si trova a ogni angolo di strada: la crisi ha spazzato via strade intere di boutique di moda pronta, sostituendole con spacci di focacce al formaggio (di Recco, si intende), di granite alla mandorla (solo d’Avola, ci mancherebbe), di gelati al limone (femminiello di Sorrento, e guardatevi bene dal fare battute perché i tempi son quelli che sono e qualcuno potrebbe accusarvi di omofobia biologica). Intere serate a discutere le virtù dell’abbattitore di temperatura domestico che permette di conservare gli stufati a tempo indefinito, come se dovessimo sfamare interi eserciti senza aver mai il tempo di cucinarne uno di fresco, pranzi funestati dal racconto delle reciproche intolleranze e dal dettaglio dei loro effetti sull’intestino. La varietà del tema è pressoché infinita, così come le allergie: i camerieri fingono di crederci sempre e sapendolo ben mascherato fra le erbette e le spezie dop dicono che no, il latte in quella vellutata non c’è, e poi, nelle rare volte in cui il malcapitato finisce al pronto soccorso con una colica esplosiva, si scusano dicendo che se dovessero dar retta a tutti servirebbero solo acqua calda.

 

La tavola è il nuovo palcoscenico delle idiosincrasie, dei nervosismi, delle antipatie cromatiche (l’insalata solo verde, grazie, la varietà di colori mi disturba) e di piagnucolii sulle sorti dell’animale “stroncato nel fiore degli anni mentre volava felice” come il piccione della scenetta fra Eduardo e Totò. Il solo fatto che certe cene da primo appuntamento superino lo scoglio del retrogusto di more e del veganismo scalzo è prova della forza evolutiva della specie umana. C’è gente che dopo aver subito anni di weekend gastronomici (“mangia cara, ma mangia con attenzione perché la carne che stai gustando così in fretta è stata massaggiata a mano”) e di acque calde al limone (e qui mi metto in gioco io, perché infliggo da trent’anni a mio marito ogni sorta di beveroni salutisti) ha ancora la forza di non chiamare l’avvocato chiedendo l’allontanamento coatto del coniuge. Che cosa succedesse nella grotta di Altamira fra la cottura del montone e il graffito a memoria non è dato di sapere; certo è che il cibo doveva giocare già da allora un ruolo importante nei rituali di accoppiamento, e la misura del montone trascinato fino all’imboccatura della caverna doveva essere un indicatore preciso delle qualità virili del cacciatore. A dispetto del tempo trascorso, che per un antropologo non sarebbe appunto moltissimo, sono convinta che le reazioni e gli indizi siano gli stessi di allora, e che sia lecito insospettirsi per un accanito fan della minestra in brodo e di rallegrarsi per un vigoroso interesse nei confronti del cibo accompagnato a una buona forma fisica, sintomo di un appropriato dispendio di energie, vedi Angelica Sedara, scintillante cafona che impugna la forchetta a metà, evocando altri e gagliardissimi appetiti attorno a quel timballo che è a sua volta simbolo sontuoso di erotismo e di morte. Il “Gattopardo” sta tutto in quel piatto da favola, fra “l’oro brunito dell’involucro”, “preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta” e gli “ovetti duri” nascosti fra le sfilettature di prosciutto e fegatini, in realtà uova sottratte dal ventre della gallina uccisa, ai tempi prelibatezza delle tavole isolane. L’origine e la fine del mondo sono il timballo che sconfigge il potage (molto temuto dagli ospiti rurali dei Salina, infatti), così come la prorompente vitalità di Angelica oscura il contegno della povera Concetta, e non è un caso che il rapporto di scandalosa attrazione fra Don Fabrizio e il tempo, cioè fra Don Fabrizio e la morte, tragga forza dalla sottile avversione che egli nutre per il cibo, ma che l’autore lascia saggiamente all’intuizione, cioè all’autonoma scoperta del lettore. Il maestro di casa di Donnafugata si limita al proverbiale “prann’ pronn”, e chi ha capito da dove vengano quegli ovetti duri buon per lui, perché non è certo il caso di spiegarlo o di farne oggetto di dibattito fra i commensali, tanto che lo “strilletto acuto” di Francesco Paolo all’arrivo del trionfo di maccheroni viene messo a tacere da uno sguardo minaccioso del padre. Nessuno apre bocca davanti al cavaliere Don Eugenio de “I Viceré” che, aiutando i camerieri a svuotare i grandiosi vassoi di dolci serviti ai visitatori in morte di Teresa Uzeda, la temibile principessa di Francalanza, se ne infila ogni tanto una manata in tasca. Farlo è un appello ai sensi e alla vita, ben prima che alla gola, su cui a nessuno è permesso di mettere bocca.
C’è invece qualcosa di sottilmente volgare, di intimamente osceno, in questa smania di sezionare il cibo come gli anatomopatologi del serial “Csi”, e non è un caso che entrambe le frequentazioni, tavolo di medicina legale e tavolo delle cucine, riscuotano di recente molto successo. L’importante, come per le forchette, è evitare che i due tavoli si incrocino. Al coppiere di un amico intimo di Cesare Augusto, il ricchissimo liberto Publio Vedio Pollione, che aveva rotto il boccale di cristallo del padrone, vennero non solo tagliate le mani, ma fu costretto a mostrare i moncherini appesi al collo a tutti gli ospiti prima di essere buttato alle lamprede dello stagno di casa. Sarebbe meglio non raccontarlo troppo in giro. Con la fame di audience televisiva che c’è in giro, gli sceneggiatori di reality del terzo millennio potrebbero farci un pensierino.

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