Matteo Renzi (foto LaPresse)

Debito e riforme. Le verità che Renzi finge di non vedere in Europa

Stefano Fassina

Ma quale flessibilità. Il piano B che serve al governo per far cambiare verso alla politica dei compiti a casa

Premessa numero uno: il governo italiano, forte di una legittimazione politica senza precedenti negli ultimi decenni, è impegnato con autorevolezza e la massima determinazione possibile per una svolta progressiva nell’Unione europea. Premessa numero due: fare i grilli parlanti dai banchi del Parlamento o dalle pagine dei giornali o dalle poltrone dei talk-show in tv è facile, mentre a Bruxelles si fa sul serio ed è altra cosa. Le premesse servono a chiarire che si ha piena consapevolezza delle enormi difficoltà politiche a arrivare a soluzioni adeguate ai problemi dell’Euro-zona e dell’Unione europea. Il dibattito al Parlamento di Strasburgo l’ha confermato. Tuttavia, sarebbe un grave errore tentare di minimizzare i problemi data la difficoltà a costruire le condizioni politiche per le soluzioni. I problemi dell’Eurozona e dell’Unione europea vanno guardati in faccia e affrontati con le soluzioni possibili sul piano politico. Altrimenti, i problemi esplodono e la politica rimane a guardare e viene, inevitabilmente, spazzata via dalla rabbia. Quali sono i problemi? Sono, innanzitutto, di analisi della realtà e delle prospettive dell’Eurozona. La realtà è la seguente: dopo quasi sette anni di cure raccomandate dalla Commissione europea al seguito di alcuni paesi forti, la Germania in primis, e di potenti interessi economici, il pil dell’Unione monetaria è ancora 3 punti percentuali al di sotto del 2007, vi sono 7 milioni di disoccupati in più e, dato sempre omesso dai racconti ufficiali, il debito pubblico medio è salito dal 65 al 95 per cento. Le prospettive sono, come rivelano le misure non convenzionali decise dalla Bce, di stagnazione, sostanziale deflazione e di ristrutturazione dei debiti pubblici di tanti stati membri. In sintesi, uno scenario drammatico.

 

Di fronte a tale scenario, le conclusioni del vertice di Bruxelles del 26 e 27 giugno e larga parte del dibattito a Strasburgo dopo le comunicazioni del presidente Renzi sono drammaticamente inadeguate. Surreali. Raccontano di una ripresa in atto e di successi delle politiche finora realizzate. Insistono a rappresentare le singole situazioni nazionali come conseguenza esclusiva di ritardi e inadempienze interne. Ignorano i difetti d’impostazione dell’Eurozona: l’affidamento dei processi di convergenza tra paesi al mercato e alle presunte verità delle tecnostrutture. Rimuovono l’impossibilità di generalizzare la rotta mercantilista tedesca: chi importa quando tutti siamo impegnati a svalutare il lavoro per esportare? Coerentemente all’analisi truccata, viene ribadita la solita ricetta: riforme strutturali; austerità; qualche concessione lessicale agli investimenti. In sostanza: svalutazione del lavoro, data l’impossibilità di svalutare la moneta, per recuperare competitività. In tale contesto, i singoli governi si affannano a cercare deroghe, a inchiodare la futura Commissione e il suo presidente a un’interpretazione flessibile delle regole, mentre il ministro delle Finanze Tedesco, Schäuble dichiara al Financial Times che non ha “mai sentito parlare di flessibilità nell’applicazione delle regole né dal primo ministro italiano né da altri” e il capo della Bundesbank ironizza su di noi.

 

Un dato oramai è evidente, non solo agli economisti mainstream, ma anche agli ultras liberisti (i ripensamenti avvengono quotidianamente): lungo la rotta imposta da Berlino e ribadita a Bruxelles e Strasburgo, il Titanic Europa va a sbattere contro l’iceberg. Lasciamo stare la flessibilità. Le deroghe richieste possono rallentare la velocità di navigazione, ma l’impatto sarebbe solo rinviato. E per favore presidente Renzi, evitiamo di aggravare i nostri guai con ulteriore vendita di quote delle poche grandi imprese nazionali di qualità: perderemmo potenzialità industriali irriproducibili e utili per il bilancio dello stato, senza alcun effetto sull’insostenibilità del nostro debito.

 

E’ necessario, invece, insieme alle riforme interne da portare avanti con determinazione, impegnarsi per correzioni sistemiche dell’agenda dell’Eurozona. Quindi, per: immettere una valanga di liquidità da parte della Bce per portare rapidamente l’inflazione oltre il 2 per cento; finanziare attraverso euro-project bonds consistenti programmi di investimento (200 miliardi all’anno), innanzitutto in piccole opere; aumentare le retribuzioni nei paesi in ingente avanzo commerciale per sostenere la loro domanda interna; costruire un’efficace unione bancaria, dopo l’accordo al ribasso della primavera scorsa, per ridurre la zavorra dei crediti inesigibili; introdurre una soluzione cooperativa nell’Eurozona per gestire i debiti pubblici oramai insostenibili, come il nostro; arrestare il negoziato sul “libero” scambio commerciale tra Ue e Usa (Ttip) e garantire l’intervento dei parlamenti nazionali nella discussione. 

 

I rapporti di forza dominanti in Europa, espressi dalla ferrea ideologia liberista delle tecnocrazie alla quale larga parte della sinistra rimane culturalmente subalterna, rendono oggi impraticabile la virata necessaria per lo sviluppo sostenibile, il lavoro e la riduzione del debito pubblico. Dobbiamo prendere atto con realismo che il fallimento della linea mercantilista e il messaggio consegnato dalle elezioni del 25 maggio producono soltanto un’irrilevante discussione sulla flessibilità nell’applicazione delle regole vigenti. Dobbiamo prendere atto con altrettanto realismo che, nella continuità delle europolicy, la dovuta attuazione di rilevanti riforme interne non evita all’Italia l’iceberg di stagnazione, ulteriore depauperamento del nostro tessuto produttivo, emorragia di lavoro e, purtroppo, ristrutturazione del debito pubblico e disintegrazione dalla moneta unica. Non vi è una via salvifica da prendere. Tuttavia, la rottura può essere caotica oppure possiamo provare a governarla per ridurre i danni e costruire le basi per una ricollocazione della nostra economia. Insomma, è ora di un piano B per l’Italia. Credere che siamo sulla rotta giusta e che la primavera è in arrivo grazie alle mitiche riforme strutturali e qualche decimale in più di deficit per un paio di anni sarebbe la condanna finale per la politica, oltre che per la democrazia e il lavoro.

 

 

 

 

 

 

 

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