Sprechi idrici

Redazione

A tre anni dal referendum sull’acqua pubblica, rimane tristemente vero che gli acquedotti “del sindaco” danno più da mangiare che da bere.

A tre anni dal referendum sull’acqua pubblica, rimane tristemente vero che gli acquedotti “del sindaco” danno più da mangiare che da bere. Lo ha da poco certificato l’Istat: nel 2012 le perdite idriche erano pari al 40 per cento dell’acqua trasportata, in crescita del 5,3 per cento rispetto al 2008. E l’ha confermato l’ottava edizione del “Blue Book”, il rapporto della Fondazione Utilitatis che nel ventennale della “legge Galli” vede un buon 19 per cento della popolazione servito da gestioni “obsolete o perennemente transitorie”. Il risultato è che quasi un quarto degli italiani non sono serviti da un depuratore, a dispetto degli obblighi europei, e il 7 per cento addirittura non è raggiunto dalla fognatura. Per colmare questo terribile gap servirebbero investimenti per almeno 65 miliardi di euro: quando invece il nostro paese continua ad allontanarsi dal mondo civile, con una spesa nell’ammodernamento idrico di appena 30 euro pro capite all’anno, contro – per fare solo alcuni esempi – i 129 euro danesi, 102 euro britannici e 88 euro francesi. L’Italia, insomma, spende poco e male: lo fa per un vizio strutturale, legato sia alla confusione normativa, sia ai pregiudizi verso le gestioni professionali (tipicamente private), sia infine al clima politico da “chi tocca l’acqua muore” (retorica referendaria e benecomunista). L’unico aspetto positivo è la scelta di delegare all’Autorità per l’energia la definizione delle tariffe, contribuendo a ridurne la valenza politica. Eppure, il problema non sarà risolto finché la politica non capirà che “acqua pubblica” è incompatibile con “acqua pulita”. Perché ciò accada è necessario far prevalere la sostanza sulla forma, e prendere sul serio la sfida della razionalizzazione e privatizzazione della galassia delle società partecipate, come chiede anche l’Antitrust nel “pacchetto di misure” inviato ieri sera a Palazzo Chigi ai fini della legge annuale sulla concorrenza; linee di indirizzo che il governo si è esplicitamente impegnato a recepire, in toto o solo in parte, con il Documento di economia e finanza. Chissà se il presidente del Consiglio Matteo Renzi – che all’epoca del referendum fu tra i pochi a votare “no” sul più importante dei due quesiti idrici, quello sulla tariffa – avrà il coraggio di scegliere “tra ciò che è facile e ciò che è giusto”, per rubare le parole ad Albus Silente, il vecchio saggio di Harry Potter.

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