Matteo Renzi è nato a Firenze l’11 gennaio 1975. E’ presidente del Consiglio dal 22 febbraio 2014. L’8 dicembre 2013 è stato eletto segretario del Pd (Foto La Presse)

Il nemico di Telemaco

Claudio Cerasa

Ministeri, staff, sottogoverno, Palazzo Chigi e Mef. Ma a che punto è la rottamazione? Il metodo di Renzi tra l’Odissea e Alessandro Magno: successi e rivoluzioni rinviate.

La metafora di Telemaco, metafora utilizzata mercoledì a Strasburgo da Renzi durante il discorso inaugurale del Semestre a guida italiana, abbiamo visto che non era forse quella giusta da adottare per descrivere il percorso europeo della rottamazione renziana. E senza voler fare troppi voli pindarici anche i bambini sanno che Telemaco, “il rottamatore Telemaco”, nell’Odissea venne salvato in extremis dal padre Ulisse dall’assalto dei Proci che lo volevano rottamare e alla fine della storia il figlio di Ulisse fu costretto a rifugiarsi rovinosamente al Quirinale da nonno Laerte per difendersi dai parenti dei Proci. Come immagine non un granché, diciamo. A voler però restare sul campo culturale dei grandi protagonisti dell’epica greca il personaggio al quale Renzi dovrebbe forse prestare più attenzione, per la sua storia, la sua parabola, il suo inizio e soprattutto la sua fine, è un personaggio reale ma non per questo non mitologico che ci tornerà utile per affrontare il tema centrale di questo articolo: Alessandro Magno, il re di Macedonia che nel Quarto secolo avanti Cristo, a vent’anni, sfruttò la fragilità dei vecchi mandarini di un impero in crisi (quello persiano) per arrivare fino in Cina, conquistare in un lampo sia l’Egitto sia l’Asia Minore, e imporre così la sua leadership in una buona parte del vecchio medio oriente. Molto coraggio. Molto valore. Molta velocità. Molto carisma. Molte conquiste. Ma un lavoro sostanzialmente lasciato a metà. E un impero, in costruzione, che al primo passo falso del suo imperatore sfruttò la rivoluzione a metà per rottamare lo stesso Alessandro e imporre un nuovo regime.

 

Fuor di metafora, oggi possiamo dire che il termometro giusto per misurare la forza e la credibilità della rivoluzione renziana non si trova nell’Europa di Telemaco ma si trova soprattutto nell’Italia di Alessandro-Renzi. E in quella che forse è la partita più delicata giocata dal presidente del Consiglio per ottenere un risultato importante: prosciugare la famosa “palude”. Per il segretario del Pd, la “palude” coincide con quella parte del paese più distante dal futurismo renziano e quella parte del paese è stata genericamente circoscritta da Renzi con l’espressione “burocrazia”. Il mio governo, ha detto Renzi all’inizio di aprile a Milano visitando il Salone del mobile, si impegnerà in una “violenta lotta contro la burocrazia per rilanciare le imprese e l’economia”. Nell’universo di Renzi, si sa, la figura del nemico riviste sempre una certa centralità e in tutte le fasi della carriera dell’ex sindaco di Firenze c’è sempre stato un avversario – un D’Alema, un Marini, una Finocchiaro, una Bindi, un Fioroni, un Letta, un Mineo, un Weber – intorno al quale costruire la propria narrazione. Il meccanismo è sempre quello: prendere un avversario, appenderlo su un palo, iniziare a schiaffeggiarlo, mostrare la propria forza e poi, con un sorriso, lasciare libero l’avversario e quindi provare a sedurlo. Finora la strategia ha funzionato bene ma sul terreno della burocrazia bisogna dire che c’è qualcosa che ancora non va. E allora ecco il punto: ma a cinque mesi dall’insediamento del governo l’imminente e annunciata rottamazione dei mandarini di stato, dei vecchi burocrati, della famigerata palude, a che punto è? Cosa è stato fatto? Cosa non è stato fatto? Cosa funziona? Cosa non funziona? Abbiamo passato alcuni giorni a curiosare tra i disegni di legge, le nomine, gli assetti ministeriali, gli staff dei ministri, i capi dei dipartimenti, i contenuti dei decreti e alla fine dei conti si può dire che la rivoluzione renziana esiste ma solo a metà: in superficie. Il primo punto del nostro viaggio riguarda la composizione delle cabine di regia dei ministeri. Il presidente del Consiglio aveva promesso che non avrebbe concesso ai consiglieri di stato di occupare posti importanti nella macchina governativa e in effetti, prendendo in considerazione i vertici dei ministeri, qualcosa è cambiato. Durante il governo Letta erano una ventina le posizioni importanti ricoperte dai giudici amministrativi all’interno dei ministeri (Rosanna De Nictolis all’Ambiente; Marco Lipari ai Beni culturali; Goffredo Zaccardi allo Sviluppo economico; Patroni Griffi alla presidenza del Consiglio; Carlo Deodato alla guida dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi; Alfredo Storto alla guida dell’ufficio legislativo alla Funzione pubblica; Antonio Catricalà al ministero dello Sviluppo economico; Francesco Tomasone capo di gabinetto del ministero del Lavoro; Mario Alberto di Nezza, magistrato del Tar, capo gabinetto alla Sanità; Giacomo Aiello alle Infrastutture, avvocato di stato). E oggi effettivamente il governo Renzi ha scelto di rimuovere molti dei vecchi mandarini di stato per sostituirli con alcune figure diverse. Più politiche. Non più magistrati capaci di far pesare all’interno del Palazzo l’appartenenza a un’altra corporazione ma funzionari politici, ovvero figure abituate a relazionarsi con la politica non con lo spirito del contropotere (io Jane, tu Tarzan) ma con lo spirito di chi riceve un comando e deve fare di tutto per eseguirlo e portare a termine una missione.

 

[**Video_box_2**]E così succede che al ministero della Pubblica amministrazione accanto a Marianna Madia ci sia Bernardo Polverari (funzionario della Camera, esperto di lavoro, capo di gabinetto del ministro). Succede che all’Istruzione ci sia Alessandro Fusacchia (tecnico di 36 anni già a capo della segreteria delle Infrastrutture e già consigliere di Emma Bonino alla Farnesina). Succede che al ministero delle Riforme, accanto a Maria Elena Boschi, ci sia Cristiano Ceresani (funzionaro della Camera, già vice capo legislativo con Gaetano Quagliariello, oggi capo dello stesso ufficio). Succede che al ministero dei Beni culturali ci sia non un tecnico ma un politico come Giampaolo D’Andrea (ex sottosegretario al governo Prodi). Succede che al ministero dello Sviluppo ci sia Vito Cozzoli (ex funzionaro della Camera, attuale capo di gabinetto). Succede che a Palazzo Chigi a capo del dipartimento Affari giuridici e legislativi (Dagl) non ci sia più un magistrato amministrativo (ai tempi di Letta c’era Carlo Deodato, consigliere di stato) ma ci sia l’ex capo dei vigili urbani di Firenze (Antonella Manzione). E succede che sempre a Palazzo Chigi nel delicato ruolo di segretario generale non ci sia più come da tradizione un altro magistrato (ai tempi di Letta c’era Roberto Garofoli) ma ci sia un tecnico molto politicizzato come Mauro Bonaretti (ex capo di gabinetto di Graziano Delrio ai tempi del governo Letta, affiancato da Marcella Castronovo e Raffaele Tiscar).

 

Dunque tutto bene e tutto roseo e tutto meraviglioso e tutto in discontinuità? Non proprio. In alcuni ministeri la discontinuità in effetti c’è. E se è vero che i magistrati ai vertici dei ministeri si contano sulle dita di una mano è anche vero che quei magistrati rimasti ai vertici dei ministeri occupano posti importanti. A Palazzo Chigi la “bonifica” è andata a buon fine (anche se in realtà nei 23 dipartimenti di Chigi Renzi si è limitato a far ruotare i capi di dipartimento, spostando per esempio Diana Agosti, moglie di Antonio Catricalà, dal dipartimento del Coordinamento amministrativo al dipartimento per le Politiche europee, spostando per esempio Elisa Grande, dirigente che nel 2009 prese il posto di Mauro Masi a Palazzo Chigi, dall’ufficio Bilancio al Coordinamento amministrativo, e così via). Ma in molti altri ministeri la rivoluzione è stata solo annunciata. Magistrati di peso si trovano al ministero della Giustizia (il capo di gabinetto di Andrea Orlando è Giovanni Melillo, ex procuratore aggiunto di Napoli). Si trovano al ministero del Lavoro (Luigi Caso, magistrato della Corte dei Conti, è il capo di gabinetto di Poletti). Si trovano alle Infrastrutture (capo di gabinetto e capo del legislativo di Maurizio Lupi sono Giacomo Aiello e Gerardo Mastrandrea, consiglieri di stato). Si trovano alla Salute (capo di gabinetto di Beatrice Lorenzin è Mario Alberto di Nezza, magistrato del Tar). Mentre provenienti da un’altra corporazione di peso sono i due angeli custodi del ministro degli Interni Angelino Alfano (capo di gabinetto è Luciana Lamorgese e capo dell’Ufficio legislativo è Bruno Frattasi, entrambi ex prefetti, entrambi particolarmente intenzionati a costringere il ministero a spingere per rinviare l’abolizione delle prefetture). Il caso di scuola che meglio fotografa la rivoluzione a metà del renzismo si trova all’interno del ministero dell’Economia. E se è vero che Renzi, per la prima volta nella storia recente del paese, è riuscito a imporre non un tecnico puro ma il più politico tra i tecnici (Pier Carlo Padaon) non si può dire che nel sottogoverno del Mef la situazione sia cambiata rispetto al passato. Di renzismo, sotto Padoan, non c’è ombra. Il capo di gabinetto del ministro è Roberto Garofoli (magistrato, ex segretario generale del governo Letta). Il capo della segreteria tecnica è Fabrizio Pagani (ex consigliere economico di Enrico Letta). Il potentissimo capo dell’ufficio del coordinamento legislativo è Carlo Sica (consigliere di stato, già nominato da Enrico Letta al dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio). Capo dell’ufficio legislativo è Andrea Simi (anti renziano di ferro, temutissimo a Palazzo Chigi). Capo del dipartimento dell’Amministrazione generale del Mef è Luigi Ferrara (ex vice segretario generale della presidenza del Consiglio durante il governo Letta). Direttore generale del Tesoro è Vincenzo La Via (altro tecnico poco incline ad assecondare le volontà di Palazzo Chigi). E a capo della Ragioneria generale dello stato (che Renzi avrebbe voluto spostare a Palazzo Chigi, ma il tentativo non è andato a buon fine) c’è il solito e inossidabile Daniele Franco. Il risultato è che Renzi e Padoan hanno effettivamente un ottimo rapporto, una profonda sintonia politica oltreché umana, ma alla fine dei conti i due sottogoverni, quello di Palazzo Chigi e quello del Mef, per come sono strutturati, per le loro diverse identità culturali, per i loro diversi profili, si osservano in cagnesco: e ogni volta che una legge deve essere scritta e ogni volta che una legge deve essere promulgata manifestano la loro profondissima e reciproca non sintonia. Se Renzi considera dunque Padoan uno della squadra a pieno titolo, sotto la superficie succede invece che i dipartimenti del Mef vengono osservati da Palazzo Chigi come se fossero ancora l’ultimo grande fortino della vecchia burocrazia. Alcune nomine, come quella, importante, per l’Agenzia delle entrate, dove Renzi è riuscito a promuovere Rossella Orlandi (scuola Ignazio Visco) e non Marco di Capua (vice di Befera e candidato di Padoan), indicano che il governo, volendo, ha la forza di imporre le proprie scelte. Ma proprio perché il governo, volendo, potrebbe fare quello che crede è curioso e insospettisce il fatto che il metodo Renzi in alcuni ministeri sia stato applicato solo a metà. Per dirne una: come può il ministro Orlando portare avanti una legge sul modello Suárez, capace cioè di essere incisiva anche con i magistrati, se a guidare la macchina del suo ministero c’è un magistrato? Dal punto di vista delle nomine non c’è dubbio che l’egemonia e la forza renziana abbiano prevalso su qualsiasi vecchio equilibrio ma dal punto di vista legislativo la differenza di cilindrata tra i motori delle macchine spesso si fa sentire. E se tra l’approvazione di un decreto, come quello sulla Pubblica amministrazione, e la pubblicazione in gazzetta ufficiale possono passare anche undici giorni (è successo davvero) la ragione va ricercata anche nei bisticci tra le burocrazie di governo. E’ un dato di fatto. In questo quadro movimentato un ruolo importante lo riveste chi materialmente gestisce il traffico dei decreti e delle possibili riforme. E quel ruolo, come detto, lo ricopre Antonella Manzione.

 

Figura anomala e controcorrente. Fiorentina come Renzi così come sono quasi tutti fiorentini i protagonisti della vita quotidiana di Palazzo Chigi (Luca Lotti, Maria Elena Boschi, Francesco Bonifazi). Figura scelta da Renzi per evitare che il capo di una struttura importante come quella del Dagl possa rispondere a qualcuno che sia diverso dal presidente del Consiglio. E figura che però nei ministeri viene valutata in modo contraddittorio. Qualcuno (non solo di fede renziana) dice che finalmente a Palazzo Chigi c’è un dirigente che evita di affrontare mille dossier tutti insieme in modo confuso e che ha il pregio di esaminare caso per caso le singole questioni con molti bilaterali con i tecnici dei ministeri. Qualcun altro dice invece che la poca esperienza di Manzione qualche volta fa ingolfare la macchina del governo perché “il Dagl funziona se le decisioni si prendono in modo collegiale tra molti ministeri e non con i singoli capi di gabinetto dei singoli ministeri”. Una critica simile, da un certo punto di vista, viene fatta oggi al sistema messo in piedi da Renzi per guidare la macchina del governo. Un sistema che anche qui, nella prassi quotidiana, prevede un doppio binario. Un binario più superficiale e un binario meno superficiale. Fino a oggi, lo avrete notato, ogni grande “rivoluzione” e ogni promessa messa in campo da Renzi è stata presentata seguendo uno spartito. Sempre lo stesso. Prima un annuncio in Consiglio dei ministri, con approvazione di formidabili “linee guida”, una specie di contratto con gli italiani, con le quali il presidente del Consiglio promette di cambiare l’Italia. Segue una breve fase di consultazione. E quindi una suddivisione della rivoluzione in due pacchetti. Nel primo pacchetto, il decreto, da approvare in Parlamento entro novanta giorni, e dunque di effetto quasi immediato, si trovano le riforme più efficaci anche dal punto di vista mediatico. Nel secondo pacchetto, il disegno di legge delega, ci sono le riforme più toste, più complicate, più coraggiose ma da approvare con tempi incerti e soggette soprattutto a grandi modifiche in Parlamento (esempio su tutti: tra l’approvazione della legge Bassanini sulla Pa, nel 1996, e la sua attuazione definitiva passarono circa cinque anni). Il metodo è sempre lo stesso. E’ andata così con la riforma del Lavoro. E’ andata così con la Pubblica amministrazione. Andrà così anche con la riforma della giustizia. Due piani, due superfici, due tempi diversi.

 

Il coraggio non manca a Renzi e il segretario del Pd lo ha dimostrato in molte occasioni. Ma il presidente del Consiglio deve ricordare che le rivoluzioni a metà sono sempre rischiose. Gli imperi si possono perdere in un lampo. E la trama di Telemaco, a certe condizioni, può diventare in un attimo una tela di Penelope.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.