Due degli uomini del Watergate, lo scandalo scoperto dal Washington Post che costò a Richard Nixon la presidenza degli Stati Uniti: Carl Bernstein e Bob Woodward.

Washington Post 2.0

Stefano Cingolani

Citizen Bezos nel santuario della stampa indipendente. Il giornale rinasce, tra i mal di pancia liberal.

Washington (D. C.). A Georgetown, irriducibile baluardo liberal, lo chiamano già Citizen Bezos, anche se il patron di Amazon non ha certo il physique du rôle di Orson Wells alias Randolph Hearst. “Ah no? Prima è diventato monopolista nei libri poi nell’e-commerce, ora sfida Apple con i telefonini e ha fatto irruzione in un santuario del giornalismo indipendente”. Daniel Marx (come Karl o come Groucho a seconda delle inclinazioni) è un newyorchese di lontana origine tedesca, ex reporter che ha girato l’Europa (Italia compresa) e adesso lavora per un big della Information technology. Secondo lui, la colpa principale di Jeff Bezos non sta tanto “nell’assassinio in serie delle librerie indipendenti”, ma nel fatto che abbia messo le mani sul Washington Post seppellendo uno degli ultimi esempi di editoria pura e lo stia cambiando dalle radici. “Indovina chi è il più aspro critico di Barack Obama, chi ha fatto i commenti più perfidi sull’Iraq, chi vuole che restiamo in Afghanistan e ormai chiama apertamente il presidente un incapace? Non il Washington Times, ma il Washington Post”.

 

E’ vero, la sentinella della capitale già da un po’ si stava spostando, soprattutto dopo l’arrivo del nuovo direttore, Marty Baron, dal Boston Globe dove ha lanciato la battaglia contro i preti pedofili, ma il colpo di barra lo ha dato Bezos. Pochi mesi fa ha stretto un accordo con uno dei siti più conservatori e libertari, chiamato Volokh Conspiracy, dove Volokh è il nome del giovanotto che l’ha fondato e conspiracy è quella del governo federale.

 

E il Datagate? Il Washington Post di Baron non ha vinto il Pulitzer per le rivelazioni sugli americani spiati dal nuovo Grande Fratello? “Certo; una bella campagna liberal, non c’è che dire, ma guarda caso sempre contro il governo – ribatte Daniel – E a chi va in quel posto? A Obama naturalmente, considerato un ipocrita e un fariseo che si nasconde dietro i proclami progressisti”. Baron è noto per non aver mai fatto comunella con i politici a differenza da Ben Bradlee, il mitico direttore del Watergate. Dunque, cosa c’entra il nuovo padrone in tutto ciò? “Forse c’entra, forse no – insiste il giornalista – ma non mi stupirei se fra poco venisse indagato dalle autorità federali per i suoi comportamenti monopolisti, con quel che combina Amazon”.

 

Peggio di Citizen Bezos, dunque. Lord Bezomort è l’ultimo appellativo lanciatogli contro dal comico Stephen Colbert nel suo show televisivo su Comedy Central. Ma come stanno le cose? Cominciamo a vedere cosa è davvero cambiato al Washington Post. “Prima di tutto, non dobbiamo più temere per il posto di lavoro – dicono nel quartier generale di 15th Street – anzi sono stati appena assunti cinquanta nuovi giornalisti e non solo per smanettare su internet, ma per scrivere articoli da stampare, per cercare notizie, per fare scoop come nella migliore tradizione”. I rapporti tra la direzione editoriale e il proprietario si muovono lungo canali di reciproco rispetto. Il Post, del resto, rifiuta anche la sola ipotesi di diventare la voce del padrone. Ma non tutti sono convinti.

 

Norman Solomon, direttore e cofondatore di RootsAction, organizzazione radicale per le libertà civili e la giustizia economica, ha inviato una lettera aperta per chiedere che il Post sia chiaro e sincero con i propri lettori. “Un principio base del giornalismo – ha scritto – è riconoscere chiaramente quando il proprietario di un mezzo di comunicazione ha rapporti finanziari o di potere con l’oggetto della propria attività giornalistica. Dunque occorre essere trasparenti tanto più quando si affronta il Datagate e ammettere che Jeff Bezos è il fondatore e l’amministratore di Amazon che ha un contratto di 600 milioni di dollari con la Cia”. Baron ha risposto mettendo le mani avanti: “Né Amazon né Bezos hanno mai messo il naso né mai lo metteranno nelle nostre indagini sul mondo dell’intelligence” e spiega che Bezos ha comperato il giornale come investimento personale tanto che lo ha collocato in una scatola finanziaria parallela e in ogni caso i profitti derivati dal contratto con la Cia sono solo una minima quota dei redditi di Amazon. Del resto, l’aggressività nel denunciare il Datagate dovrebbe far testo.

 

Baron è stato scelto dalla famiglia Graham già nell’inverno del 2012 e si è insediato la primavera successiva. E tuttavia viene considerato un uomo nuovo. Dal blasone Watergate ha preso l’orgoglio di fare le bucce al potere. “E non c’è niente di più potente nella nostra società del governo federale – ha spiegato alla Lehigh University che lo ha laureato dottore in Lettere honoris causa – Quelli che hanno fondato questo paese ne erano preoccupati, temendo che potesse sovvertire le nostre libertà civili”. Anche i libertari del Cato Institute non possono che applaudire.

 

Dunque, Bezos non ha cambiato i fondamentali del Post, anche se non è un editore puro né, tanto meno, dormiente. La principale novità per il momento riguarda la parte commerciale. E l’area digitale che era l’anello più debole della catena, dal momento stesso in cui l’inventore di Amazon ha deciso di acquistare è diventata il perno attorno al quale ruota la ristrutturazione del giornale. Sono arrivati 25 ingegneri che aiutano i reporter a veicolare le storie nel mondo digitale che ha le sue regole e il suo linguaggio multimediale. Alla guida del reparto tecnologico è stato chiamato Shailesh Prakash che ha aperto un laboratorio per sviluppare software adeguati. Il sito è stato, naturalmente, ridisegnato sotto la sorveglianza di Bezos che si collega ogni due settimane in videoconferenza con Prakash e i due si vedono una volta al mese o a Washington o a Seattle. “Ci parliamo da ingegnere a ingegnere chiamandoci per nome”, spiega, perché Jeff in effetti ha studiato informatica a Princeton prima di fare il banchiere d’affari a Wall Street e poi mollare tutto nel 1994 partendo con la moglie MacKenzie per la costa del Pacifico. E’ stata proprio lei, che scrive romanzi e si è sempre occupata di libri, a offrirgli l’idea per cominciare. Ma in realtà il fiuto degli affari e il gusto dell’innovazione gli avevano fatto capire che era meglio partire in un campo del tutto inesplorato.

 

All’inizio pochi lo hanno preso sul serio, ma presto si è cominciato a capire che tutti, anche nella più desolata prateria del West, avrebbero potuto ricevere un libro in tempi rapidi e addirittura con lo sconto sul prezzo di copertina. E’ stato aiutato da una tradizione di vendite per corrispondenza tanto che molti all’inizio pensavano che la formula potesse funzionare solo nelle immensità americane o nelle aree rurali, lontane dalle grandi città. Nel 1998 quando Bezos sbarcò a Parigi, gli intellò con il naso all’insù erano convinti che nella patria dei booquiniste mai nessuno avrebbe abboccato all’amo. Sicuro di sé, il piccolo e ipercinetico Jeff con la sua zucca pelata, gli occhietti brillanti e la camicia aperta sempre senza cravatta, si sforzava di spiegare che lui avrebbe cambiato il paradigma dell’intera editoria. Giornalisti e recensori scrollavano la testa. Eppure la Francia è stata il primo paese europeo ad aprire una filiale di Amazon per vendere libri in lingua francese. L’editore Hachette ha incrociato le lame con Amazon e il ministro della Cultura Aurélie Filippetti tuona in difesa delle librerie indipendenti. Ma i francesi continuano a ordinare libri via internet e a scaricarli sui tablet.

 

Il passo successivo è stato offrire, partendo proprio dalla piattaforma editoriale, di tutto un po’. “Se la gente compra libri e si fida di darci il numero della carta di credito, perché non può acquistare qualsiasi altra cosa?”, diceva fin da allora Bezos il visionario. Oggi vende in America trenta volte più di Walmart la maggiore catena di grandi magazzini, è il primo nell’e-commerce in Europa e in Giappone.

 

Un abile mercante, dunque. Un distruttore, dicono i suoi nemici. Eppure con l’introduzione di Kindle ha aperto la strada a un’altra dimensione di lettura che oggi, con iPad, è entrata persino nei licei classici italiani, baluardo della erudizione scolastica. Il 18 giugno ha lanciato Fire Phone, un nuovo telefonino in grado di dare notizie in 3D su qualsiasi cosa, a cominciare da quel che si può vendere e comprare, sia una bottiglia di vino o una canzone. Fantastico, ma cosa c’entra con l’informazione? Un Fire a ogni giornalista del Post basterà a recuperare il terreno perduto?

 

Dopo aver chiuso negli anni scorsi quasi tutti gli uffici di corrispondenza, anche quello costosissimo di Manhattan, il giornale vuole assumere un reporter a tempo pieno nella Silicon Valley, ça va sans dire. Un altro segno che Citizen Bezos vigila? “Senza di lui non sarebbe stato possibile rilanciare il giornale, questi cinquanta giovani non sarebbero mai entrati in redazione”, ammette Michael Calderone sull’Huffington Post. Il morale è alle stelle: “Non c’è miglior posto dove lavorare”, giura Chris Cillizza che dirige il blog Fix. Insomma la luna di miele non è finita. Ma presto arriverà la resa dei conti. Bezos vorrà vedere i primi risultati in termini di numeri, di copie vendute, di utili. “Non ci ha fatto certo la carità – ammette Baron – Nessuno investe senza attendersi un ritorno”.

 

Gli editori puri non hanno fatto una bella fine. “Katharine Meyer Graham era stata una figura fantastica”, racconta un giornalista del Wall Street Journal che l’aveva conosciuta. Forte, determinata, corretta, la figlia del fondatore aveva svegliato un foglio addormentato. Il Watergate era stato nello stesso tempo la fortuna e la condanna “perché dopo una cosa così non puoi più essere un giornale normale, devi sempre cercare il massimo dei massimi”. Scomparsa lei, nel 2001, i successori non si sono rivelati all’altezza.

 

Nell’èra b. B. (before Bezos) si respirava un’atmosfera mefitica. La crisi del 2008 aveva scosso le fondamenta finanziarie del giornale e il morale della redazione era sotto le scarpe. “La gente s’ammassava nella newsroom e passava il giorno a speculare su quanto tempo sarebbe trascorso prima di riempire gli scatoloni come quelli di Lehman Brothers”, ricorda un testimone di questa morte e trasfigurazione del Post.

 

Persino Katharine Weymouth (nipote della Graham e pronipote di Eugene Meyer il finanziere che nel 1933 aveva acquistato il Post dopo aver lasciato la Federal Reserve), entrata nel giornale di famiglia nel 1996 per poi diventare direttore editoriale, si dichiara entusiasta del cambiamento forse perché per ora è rimasta al suo posto: “E’ davvero eccitante, si torna a investire e noi cominciamo a vedere un futuro nel digitale”, dichiara. L’anno primo a. B. (after Bezos) si chiude, dunque, con un bilancio positivo nonostante i mal di pancia dei liberal. Rem Rieder il media editor di Usa Today arriva a sostenere che il giornalismo sta entrando in una nuova età dell’oro.

 

Il patron di Amazon è arrivato nell’estate scorsa con 250 milioni di dollari in contanti (non tanti per un uomo la cui ricchezza è stimata 27 miliardi di dollari) e gli eredi Graham hanno intascato e ringraziato: una manna dal cielo. Perché l’ha fatto? Per prestigio, sostengono alcuni. In fondo c’è sempre stato un big del mondo degli affari a salvare il giornale da una delle ricorrenti crisi: Warren Buffett è stato il maggior singolo azionista fin dal 1973 e ha venduto il suo 28 per cento nel marzo di quest’anno.
Bezos dice di aver fatto una scelta a lungo termine come con Amazon. Lo scorso anno ha realizzato profitti per 274 milioni, pochissimo rispetto a un fatturato di 74 miliardi e mezzo di dollari e un valore di Borsa che arriva addirittura a 154 miliardi. Sono cifre strane per chiunque, non per Bezos il quale, secondo l’Economist, che gli ha dedicato una storia di copertina, ha introdotto a Wall Street la cultura del lungo periodo. “Noi abbiamo avuto tre grandi idee – racconta l’imprenditore – alle quali siamo rimasti fedeli per 18 anni, e sono la ragione del nostro successo: mettere il cliente prima di tutto, inventare e avere pazienza. Se sostituisci la parola cliente con lettore, questo approccio può avere successo anche al Washington Post”. Dunque, non c’è da attendersi svolte immediate, ma piuttosto un lavoro di aggiornamento tecnologico e riposizionamento editoriale.

 

Altri sostengono che c’è dell’altro, perché quando un uomo d’affari compra un giornale ha comunque un’agenda politica in testa, sia pure di politica in senso lato. Ed è proprio una delle considerazioni che hanno indotto Buffett a tirarsi indietro. “Citizen Bezos come lo Squalo Murdoch? No, c’è una differenza di fondo. A Jeff la politica non interessa, per Rupert è la sua vita”, spiega chi conosce entrambi. Non interessa ancora. Ma che succede se l’Antitrust si getta al suo inseguimento come invita a fare un libro fresco di stampa?

 

Steve Coll ha lavorato vent’anni al Washington Post (e ha vinto anche un Pulitzer). Adesso ha pubblicato sulla New York Review of Books un articolo che, recensendo un libro scritto da Brad Stone intitolato “The Everything Store (che potremmo tradurre il negozio di ogni cosa), lancia un aspro j’accuse contro Bezos. Amazon orientata al cliente? Sì, finché non aveva abbastanza potere di mercato, poi ha cominciato a fare il bello e cattivo tempo soprattutto nei confronti degli editori per strappare condizioni favorevoli. Chi rifiuta viene penalizzato in molti modi: modificando l’algoritmo per far regredire il libro, assumendo critici e scrittori per criticarlo o denigrarlo. I primi a cadere sono stati i più deboli cioè gli editori indipendenti. “Soprattutto nel mondo dei libri digitali dove Amazon ha ormai due terzi del mercato – denuncia Coll – bisogna chiedersi come mai l’Antitrust non fa nulla per proteggere gli autori e gli editori da quello che è un vero e proprio bullismo economico”.
Bezos contrattacca sostenendo che lui ha tirato via la ruggine da una industria editoriale al collasso, dominata già da pochi grandi gruppi i quali a loro volta si stavano integrando con gli altri media, la tv prima, internet poi. Basti prendere Time-Warner-AOL o Murdoch. La nuova èra digitale non ha ridotto la lettura di libri, semmai il problema è un altro: il prezzo dell’informazione è crollato molto rapidamente e la diffusione di notizie gratis ha reso molto più difficile la sopravvivenza di giornali come il Washington Post che impiegano talenti e risorse massicce per trovare notizie le quali, riassunte e ridotte in pillole circolano liberamente altrove. I tentativi di creare barriere a pagamento sono piccole dighe di fronte all’alluvione. Ammette Bezos: “Come campi, in un ambiente di questo tipo? Anche se alzi un paywall, gli altri siti possono comunque riassumere e dare le notizie gratis”. Nessuno ha una risposta, nemmeno il grande venditore, ma la nuova sfida è proprio questa, trovare un modello che funzioni.

 

“E’ nello stesso tempo un uomo di grande visione, un innovatore e un distruttore – sostiene Coll – Forse riuscirà a salvare il Post e a rivitalizzare il business dei giornali e trasformare il ruolo di Amazon nei libri digitali in qualcosa di più creativo che non quello di predatore. Sfortunatamente, le prove raccolte da Stone nel suo libro non forniscono una base per un tale ottimismo”. Qualunque cosa si pensi, Bezos ha oggi più influenza di qualunque altro sul futuro della lettura e Coll chiede una sorta di intervento regolatorio da parte delle autorità, citando quel che fece Franklin D. Roosevelt negli anni Trenta di fronte all’irrompere dei grandi magazzini. In realtà, non sembra che da allora a oggi in America e nel mondo intero i supermarket si siano fermati o siano diventati più piccoli. La concentrazione monopolistica è un problema serio, tuttavia la risposta sta nel cambiare il vecchio non nel limitare il nuovo. Una volta Bezos in televisione si è difeso tenendo fede al suo credo schumpeteriano: “Tranquilli, anche Amazon sarà superata e distrutta”. Poi ha aggiunto con sguardo da furetto: “Spero non finché sarò vivo”.