Girone E

Redazione

Svizzera, Ecuador, Francia, Honduras

Svizzera

 

Paradiso d’eccezioni, ma non per tutti. Banche, immigrazione, diritti. Mitigare l’assalto guardone delle organizzazioni internazionali alle banche elvetiche ha tenuto impegnati gli svizzeri in questi quattro anni. Con una raffica di accordi internazionali in materia fiscale, Berna s’è tolta di dosso la stigma di “paradiso fiscale” uscendo dalla “lista nera”, pur conservando ampi margini di riservatezza per i ricchi correntisti (tra cui qualche dittatore defenestrato dalle rivolte arabe). Il deterioramento delle relazioni diplomatiche con l’Unione europea però non aiuterà Berna a proteggere il sistema fiscale e a irrobustire le finanze pubbliche. E non è per l’invidia europea di una crescita economica che il Vecchio continente vedrà forse tra cinque anni, per il basso debito pubblico elvetico, o per la possibilità di Berna di guidare a piacimento il corso del franco, quanto per i contraccolpi del referendum popolare con cui gli svizzeri quest’anno hanno voluto limitare l’immigrazione dai paesi vicini. I leader europei sono parsi scandalizzati. Salvo poi stupirsi qualche settimana dopo per il fatto che gli stessi cittadini svizzeri hanno respinto, sempre per via referendaria, la proposta apparentemente allettante di alzare il salario minimo. Non chiamateli populisti.

 

 

Ecuador

 

Già squadra materasso, dal 1988 l’allenatore montenegrino Dusan Dráskovic iniziò a infonderle fiducia, nel 2002 riuscì per la prima volta a qualificarsi per Mondiali, e nel 2006 arrivò addirittura agli ottavi, dove l’Inghilterra la eliminò solo con un faticoso 1-0. Ma nel 2010 restò fuori. Già nel 2009 era intanto diventato presidente Rafael Correa: economista cattolico di sinistra amico di Chávez, ma curiosa variante di populista tecnocrate che con strumenti non ortodossi ha raggiunto tassi di crescita dal 5,5 per cento l’anno. Tra sfuriate autoritarie e prese di posizioni anti-Usa culminate nella concessione di asilo a Assange, Londra, Correa ha però spesso spiazzato anche a sinistra: veto all’aborto, revoca del divieto agli ogm, ricerche petrolifere in Amazzonia, dollarizzazione, accordo con Goldman Sachs per “investire” le riserve auree.  E anche la nazionale è in buona forma, anche se non più al favoloso decimo posto del ranking Fifa dell’aprile 2013.

 

 

Francia

 

Già quattro anni fa squadra e paese non stavano molto bene. I galletti di pelle nera si ribellarono all’allenatore Raymond Domenech, un sadico presuntuoso e cretino. Nicolas Sarkozy presidente de la République stava mangiando le sue ultime fette di pane bianco, avrebbe avuto ancora il tempo di irridere il nostro premier prima di svanire nel nulla di un’impossibile rielezione. Oggi paese e calcio stanno pure peggio: crescita zero, stagnazione, disoccupazione al galoppo, debito che sale, politica repubblicana messa in ginocchio dall’onda della destra sovranista di Marine Le Pen. All’Eliseo c’è un altro inquilino, un socialista, ma anche lui sembra avere la freschezza dello stoccafisso: François Hollande è al minimo di tutto, popolarità, prestigio, determinazione, dovrà pagaiare come un forsennato per sperare di essere rieletto nel 2017. I bleu sono sempre blanc-black beur, arcobaleno, ma chi non lo è oggi, dovranno inventarsi qualcosa di pazzesco per farsi perdonare un paio di peccatucci: come hanno sculato la qualificazione e come sono stati sistemati dall’ineffabile Platini nel girone Panini, mentre noi dobbiamo giocare contro due squadre campioni del mondo in una cazzo di giungla a 40 gradi percepiti.

 

 

Honduras

 

In Honduras negli ultimi quattro anni è cambiato tutto, almeno a livello politico. A Porfirio Lobo Sosa, che aveva vinto le elezioni dopo il colpo di stato che aveva destituito il precedente presidente Manuel Zelaya,  è subentrato, dopo il voto di gennaio, Juan Orlando Hernández. In Honduras negli ultimi quattro anni non è cambiato nulla, almeno a livello politico. Oggi come allora, infatti, le polemiche post votazioni non tendono a scemare, chi ha vinto si è autoproclamato presidente e l’Alleanza Bolivariana per le Americhe, oltre al presidente Maduro, non hanno riconosciuto l’esito delle elezioni, denunciando ingerenze statunitensi e “irregolarità e intimidazioni violente” da parte dei vincitori. Il paese continua a essere uno tra i meno sviluppati e industrializzati dell’America centrale e tra quelli con il debito estero più alto al mondo.