Basta con la Rai corporazione

Marianna Rizzini

“Il decreto governativo sarà pure brutale e rozzo nella forma, ma tagliando 150 milioni dal canone Rai 2014 costringe la tv di stato ad accelerare un piano di razionalizzazione non più rimandabile, anche se in parte avviato”. Lo dice il consigliere Rai in quota centrodestra Antonio Pilati, nominato nel 2012 ai tempi di Mario Monti dopo una carriera da commissario Agcom e Antitrust. Un milanese di mondo ma anche di nicchia: laurea in Filosofia a inizio anni Settanta, esperienza professionale da direttore di riviste del ramo pubblicitario della Milano da bere.

    “Il decreto governativo sarà pure brutale e rozzo nella forma, ma tagliando 150 milioni dal canone Rai 2014 costringe la tv di stato ad accelerare un piano di razionalizzazione non più rimandabile, anche se in parte avviato”. Lo dice il consigliere Rai in quota centrodestra Antonio Pilati, nominato nel 2012 ai tempi di Mario Monti dopo una carriera da commissario Agcom e Antitrust. Un milanese di mondo ma anche di nicchia: laurea in Filosofia a inizio anni Settanta, esperienza professionale da direttore di riviste del ramo pubblicitario della Milano da bere. Pilati la televisione la conosce bene. Conosce la Rai, conosce Mediaset. Conosce gli uomini di questa e di quella, e i politici che di tv si sono occupati. “Non è un’alternativa quella di mettersi a difendere così com’è una Rai che ha invece bisogno di essere profondamente cambiata, con il rischio di passare per i difensori di quella che gli italiani vedono sempre più simile a un pezzo della casta”, dice Pilati. Lì davanti c’è la tv di stato, il malato che non vuole essere curato. Lì davanti c’è la storia a rovescio di questi giorni di scontro Rai-Renzi, con l’Usigrai e il mondo dei conduttori ex Pci-Pds-Ds (vedi battibecco in diretta tra Giovanni Floris e il premier sul suddetto decreto) che si ritrova paradossalmente dalla stessa parte degli (ex?) nemici di centrodestra, i solitamente contestati, a sinistra, consiglieri Antonio Verro e Guglielmo Rositani, con i Cinque stelle che fanno catenaccio anti-tagli dalla commissione di Vigilanza, nonostante tutti i precedenti discorsi anti-Rai e anti-sprechi.

    Tra gli schizzinosi del carrozzone che rischia la caduta nel baratro, tra le mura inamovibili della Rai-nocciolo duro che si prepara al ruolo di roccaforte della resistenza allo spintone renziano (altro che Cgil), c’è sempre “un altro modo” di procedere. L’Usigrai, sindacato dei giornalisti Rai, vorrebbe ora fare ricorso contro il taglio di Renzi e poi “cambiare la Rai insieme in 60 giorni” (della serie: arriva l’estate, poi si vede). Nel frattempo sulle reti pubbliche sono andati in onda auto-spot in cui la Rai si dipinge come un Eldorado, paragonandosi agli omologhi stranieri: noi abbiamo meno dipendenti degli inglesi, noi qui e noi lì. Unico problema riscontrabile nell’autoritratto: l’evasione del canone. Negli ultimi giorni, sempre l’Usigrai ha fatto arrivare al cda il parere del costituzionalista Alessandro Pace, che giudica “incostituzionale” il decreto renziano che copre gli 80 euro in busta paga anche con il “prelievo” di 150 milioni di canone Rai. “Voi consiglieri di cda sarete considerati responsabili, se non farete ricorso”, è l’accusa proveniente dalla trincea di malmostosità. Si configura l’“appropriazione indebita”, dice Pace, ché il canone “è un’imposta di scopo e quelle entrate non vanno nel bilancio generale”. Il cda di mercoledì scorso ha visto le carte, ha dibattuto, ha scelto una linea attendista. Ma intanto la scossa del prelievo-canone è arrivata, al placido pachiderma Rai che se ne stava tutto sommato tranquillo, nonostante nel 2012 fossero arrivati i tecnici (e presunti giustizieri): il direttore generale Luigi Gubitosi, la presidente Anna Maria Tarantola, il nuovo cda. Stavano lavorando, i tecnici, per mettere ordine tra sprechi, doppioni e illogicità, ma senza troppo traumatizzare l’azienda mai davvero toccata dal Palazzo. Un Palazzo che, di qualsiasi colore fosse l’inquilino di volta in volta al governo, e nonostante le liti mediatiche tra dg berlusconiani e conduttori antiberlusconiani, preferiva alla fine accarezzare il gattone Rai per il suo verso (altro che “cambiare verso”). Eppure, prima del taglio annunciato, erano tutti molto renziani a parole, in Rai. Il dg Luigi Gubitosi aveva cercato (invano) di incontrare il premier. Ma l’onta del canone sottratto, evidentemente, è stata troppo grande. “E’ la prima volta da innumerevoli anni”, dice Pilati, “che un governo non sta al gioco e non tratta la Rai come la pupilla dei suoi occhi, accudita con decreti di salvataggio. Ma oggi sposare la difesa dello status quo equivale al suicidio”. Sbullonare la Rai col premier-bullo (o sulla scia del bullo), dunque, ma come? “Bisogna rovesciare il trend degli ultimi dieci anni”, dice Pilati, “anni in cui sono stati ridotti gli investimenti della fiction ed è stata aumentata la spesa corrente. Tra il 2008 e il 2013 gli investimenti della fiction sono scesi da 280 a 180 milioni di euro. E sono stati ridotti al minimo gli investimenti in tecnologia, fatto salvo il digitale terrestre”.

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    “E’ stato il cda di cui faccio parte”, dice il Pilati consigliere, “ad avviare alla fine del 2012 la digitalizzazione dei telegiornali, cominciando dal Tg2. La Rai, che è stata all’avanguardia tecnologica per lunga parte della sua storia, si è trovata in questi anni in grave ritardo. Quella che invece è cresciuta senza sosta è la spesa per gli stipendi. Il costo del lavoro in Rai è arrivato a una punta di un miliardo e 28 milioni, anche se nel 2013, con il piano-esodi, è stato ridotto a 995 milioni. Resta comunque un costo esorbitante. A Sky il costo del lavoro pesa per il 7 per cento dei ricavi, a Mediaset per il 13 per cento, in Rai per il 36 per cento. Abbiamo poco meno di 13 mila dipendenti tra contratti a tempo determinato e indeterminato, più una marea di partite Iva che spesso hanno come unico cliente la Rai”. Il compito del cda è “riportare i conti in equilibrio e traghettare la Rai nel futuro”, dice Pilati. Meglio forse accettare la dieta forzata di Renzi, “e aiutarsi così a raggiungere l’obiettivo”. E siccome nel 2014 la finanza pubblica non andrà meglio, “non puoi continuare a trasformare il canone in stipendi ed eccedere in appalti. Devi dare impulso all’industria dell’audiovisivo, razionalizzare il settore-informazione, continuare a investire in tecnologia”.

    [**Video_box_2**]Il cda Rai scade fra un anno, le voci romane raccontano di un Matteo Renzi che non tocca nulla adesso – “gli conviene far fare il lavoro duro a uomini non suoi”, dicono gli osservatori – per cambiare tutto poi. C’è chi dice che il dg Luigi Gubitosi volesse andarsene prima della scadenza, ma che ci abbia ripensato per non apparire un capitan Schettino che abbandona la nave che affonda. E c’è chi dice che il futuro vedrà un grande ruolo per l’ex vertice di Mtv e La7 e Viacom international Antonio Campo Dall’Orto, nominato da Matteo Renzi nel cda di Poste Italiane. Intanto però bisogna mettere mano al carrozzone traballante. Che cosa si può correggere? “Si è investito molto sul canale all news”, dice Pilati, “ma allora poi non puoi tenere tre telegiornali in concorrenza tra loro, con 27-28 edizioni complessivamente in onda sulle tre reti ogni giorno – in media 8 o 9 per rete dalla mattina a notte fonda. Se hai una all news, sulle altre reti l’informazione deve essere ripensata, con possibili grandi risparmi di scala”. Secondo passo: “Il modello della Rai-silos ha fatto il suo tempo. Ogni rete è un mondo a sé, in concorrenza con gli altri, una repubblica autonoma che non esita a tirare calci agli stati confinanti. Ma questo è un modello che risale a prima della tv commerciale, quando si pensava che la concorrenza dovesse farsi all’interno della Rai. Con l’avvento delle tv commerciali tutto è cambiato. La Rai oggi dovrebbe pensarsi come un’azienda unica con una pluralità di tasti, da suonare però in modo coordinato”. Terzo passo: “I palinsesti vanno avanti anche per forza di inerzia, e sempre con in mente il modello-silos. Bisogna riorganizzare le reti e ripensare la linea editoriale”. Tutto qui? “C’è un’altra azione molto importante da fare. La Rai oggi è di fatto il più grande e ormai quasi unico finanziatore dell’industria audiovisiva, un elemento chiave della nostra identità collettiva. Ci sono rivoli sparsi di finanziamenti da concentrare e rendere più efficaci. Qualche passo sul lato cinema è stato fatto, ora occorre agire sul lato fiction. In cda possiamo affrontare questi nodi. Da lì in avanti è il campo della decisione politica”.

    A quali modelli la Rai potrebbe guardare, alla Bbc che ha un canone più alto del nostro ma è senza pubblicità? Alla tv tedesca che ha poca pubblicità? “Con internet e i tablet il mondo è cambiato. L’offerta formativa è diversa, la fruizione è diversa. Oggi il modello ibrido di televisione che contiene tutto – da Rai educational alla soap fino ai telefilm d’azione – forse è da superare. Bisogna chiedersi quali siano le priorità”, dice Pilati. Due giorni fa il sottosegretario allo Sviluppo, Antonello Giacomelli, ha proposto una “riforma del canone all’insegna dell’equità”. Qualsiasi sia la soluzione adottata per il recupero dell’evasione, Pilati partirebbe “dalla ridefinizione della missione Rai. E’ importante salvaguardare il rapporto con i cittadini, magari con una forma di accountability dei vertici Rai, che potrebbero andare a riferire direttamente in Parlamento due volte l’anno”. Intanto però c’è chi in Rai si offende a essere trattato da casta, senza per questo rinunciare ad arroccarsi.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.