Pietro e il risiko dei patriarchi

Matteo Matzuzzi

Si rivolgeva a Bartolomeo, Francesco, quando domenica sera nella penombra della basilica del Santo Sepolcro riconosceva che “resta da percorrere ancora altra strada per raggiungere quella pienezza di comunione che possa esprimersi anche nella condivisione della stessa mensa eucaristica”. Ma lo sguardo, più che a Costantinopoli, era rivolto a Mosca, la grande assente alla celebrazione ecumenica di Gerusalemme e la più decisa a negare qualunque forma di primato alla chiesa di Roma. Fin dalle prime settimane di pontificato, il Papa ha inserito tra le priorità della propria agenda il recupero dei rapporti con la Russia ortodossa, l’ostacolo più alto per ritrovare la piena comunione.

    Si rivolgeva a Bartolomeo, Francesco, quando domenica sera nella penombra della basilica del Santo Sepolcro riconosceva che “resta da percorrere ancora altra strada per raggiungere quella pienezza di comunione che possa esprimersi anche nella condivisione della stessa mensa eucaristica”. Ma lo sguardo, più che a Costantinopoli, era rivolto a Mosca, la grande assente alla celebrazione ecumenica di Gerusalemme e la più decisa a negare qualunque forma di primato alla chiesa di Roma. Fin dalle prime settimane di pontificato, il Papa ha inserito tra le priorità della propria agenda il recupero dei rapporti con la Russia ortodossa, l’ostacolo più alto per ritrovare la piena comunione. Così, la dichiarazione congiunta con Bartolomeo I sottoscritta l’altra sera assume i contorni di un “nuovo, necessario passo sul cammino verso l’unità alla quale soltanto lo Spirito Santo può guidarci: quella della comunione nella legittima diversità”. Niente di più, se non l’impegno a riprendere il filo della discussione teologica tra cattolici e ortodossi, ferma al Documento di Ravenna del 2007 sulla comunione ecclesiale, la conciliarità e l’autorità che riconosce al Pontefice un ruolo di primus inter pares tra i patriarchi cristiani. Soluzione neppure presa in considerazione, però, dal Patriarca Kirill, che rifiuta di discutere anche la concessione di un primato meramente onorifico al vescovo di Roma.

    Gli approcci con Mosca negli ultimi mesi sono stati costanti, più volte s’è visto a Roma il metropolita Hilarion, presidente del dipartimento per le Relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato, e recente è anche un viaggio del cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, in Russia. Si lavora sottotraccia, i dossier teologici sono aperti al confronto, benché la questione fondamentale che impedisce l’abbraccio sia una soltanto: il primato petrino. L’ha spiegato bene il cardinale Walter Kasper, in un’intervista concessa a Tv2000: il cammino è ancora lungo, non c’è una chiusura. Lo stesso Kirill, salutando l’elezione di Francesco, aveva detto di apprezzare “l’alto livello di comprensione e l’impegno da entrambe le parti nel rafforzamento della collaborazione ortodosso-cattolica”.

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    Ma il ruolo del romano Pontefice è argomento su cui Mosca non è disposta a trattare. Francesco lo sa bene, è consapevole che non basta citare sant’Ignazio d’Antiochia e definirsi vescovo della chiesa che “presiede nella carità tutte le altre chiese del mondo” per sanare una ferita che sanguina da un millennio. Anzi, proprio quel passaggio di Ignazio d’Antiochia sulla “presidenza nella carità” ha rappresentato uno dei punti di frizione che portarono Mosca a rifiutare il Documento di Ravenna del 2007 preparato dalla speciale commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la chiesa cattolica romana e la chiesa ortodossa che tornerà a riunirsi il prossimo settembre in Serbia. E’ anche per questo che nel discorso tenuto domenica davanti a Bartolomeo ha chiarito che il suo auspicio è quello di “mantenere un dialogo con tutti i fratelli in Cristo per trovare una forma di esercizio del ministero proprio del vescovo di Roma che, in conformità con la sua missione, si apra a una situazione nuova e possa essere, nel contesto attuale, un servizio di amore e di comunione riconosciuto da tutti”. Il rimando è all’enciclica giovanpaolina Ut unum sint, il cui incipit è stato preso tra l’altro come motto dell’intero viaggio in Terra Santa. “Certo – ha detto il Papa – non possiamo negare le divisioni che ancora esistono tra di noi” e “questo sacro luogo ce ne fa avvertire con maggiore sofferenza il dramma”. E mentre lo diceva, guardava Teofilo III, patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, da un mese non più in comunione con le altre chiese ortodosse per volontà del patriarca greco-ortodosso di Antiochia, Giovanni X, che si è anche rifiutato di sottoscrivere la proposta di Bartolomeo di convocare nel 2016 il grande concilio panortodosso. Il Papa chiede a tutti uno sforzo, ricordando che più che le risse per dividersi gli orari delle funzioni nel Santo Sepolcro, bisognerebbe pensare a quell’“ecumenismo del sangue, della sofferenza” che si realizza quando i cristiani tutti si trovano a offrire gli uni accanto agli altri. “Quelli che per odio alla fede uccidono e perseguitano i cristiani, non domandano loro se sono ortodossi o cattolici”.
    Twitter @matteomatzuzzi

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.