Vescovi litigiosi alla prova Bergoglio

Matteo Matzuzzi

Mai prima di ieri era accaduto che il Papa, anziché il cardinale presidente, aprisse l’Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Francesco aveva subito accettato l’invito rivoltogli da Angelo Bagnasco, benché dal Vaticano avessero sottolineato che il Pontefice nutriva “la medesima intenzione”. Invito o no, avrebbe tenuto ugualmente la prolusione, momento culminante di un anno in cui Bergoglio ha dato chiari segnali circa la volontà di riorientare la Cei verso le priorità inscritte nella sua agenda.

    Mai prima di ieri era accaduto che il Papa, anziché il cardinale presidente, aprisse l’Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Francesco aveva subito accettato l’invito rivoltogli da Angelo Bagnasco, benché dal Vaticano avessero sottolineato che il Pontefice nutriva “la medesima intenzione”. Invito o no, avrebbe tenuto ugualmente la prolusione, momento culminante di un anno in cui Bergoglio ha dato chiari segnali circa la volontà di riorientare la Cei verso le priorità inscritte nella sua agenda: più misericordia e periferia, meno lotta in difesa di quei valori non negoziabili di cui il Papa preso quasi alla fine del mondo rifiuta perfino la definizione – “I valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra”, diceva nell’intervista concessa al Corriere della Sera – e che sono stati uno dei caposaldi del ventennio ruiniano. Concetti fatti propri, in modo meno sottile e più ruvido, dal nuovo segretario generale, mons. Nunzio Galantino da Cassano allo Ionio, sostituto di mons. Mariano Crociata, trasferito a Latina: “In passato ci siamo concentrati esclusivamente sul no all’aborto e all’eutanasia. Non può essere così. Io non mi identifico con i visi inespressivi di chi recita il rosario fuori dalle cliniche che praticano l’interruzione della gravidanza”. Davanti a un attento uditorio fatto di “vescovi intimoriti dalla durezza con cui Bergoglio li vuole estranei alle beghe politiche”, osservava qualche tempo fa lo storico Alberto Melloni, Francesco chiarisce di voler offrire in modo franco “alcune riflessioni con cui rivisitare il ministero dei vescovi”, venendo così “incontro a quanti si domandano quali siano le attese del vescovo di Roma sull’episcopato italiano”. Riecheggiano, nel testo, più d’una volta le parole usate dall’allora arcivescovo di Buenos Aires quand’era alla guida della Conferenza episcopale argentina.

    Si richiama a Paolo VI quando invoca partecipazione e collegialità, quando esorta i vescovi – lasciando da parte il testo dattiloscritto – a discutere, a dire ciò che sentono, senza timori o paure. Da loro pretende unità, che come ricordava Montini è “questione vitale per la chiesa”. E’ lontana l’eco di un altro commissariamento, quello operato da Giovanni Paolo II a Loreto nel 1985. Allora, il Pontefice polacco rovesciò la direzione di marcia dicendo che la chiesa italiana doveva avere “un ruolo guida e un’efficacia trainante nel cammino della nazione verso il suo futuro”. Il Papa gesuita, anziché ai piani pastorali che servono (ma senza dimenticare che “la nostra fiducia è riposta altrove”) pone l’accento sulla dimensione pastorale, punta a tornare “all’essenziale della fede”, ricorda che servire il Regno richiede di “essere decentrati rispetto a se stessi, protesi all’incontro”, ché questa è “la strada per ritrovare veramente ciò che siamo: annunciatori della verità di Cristo e della sua misericordia”.

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    Misericordia che mai deve essere disgiunta dalla Verità, come scrisse Benedetto XVI nella Caritas in Veritate. “Senza la Verità, l’amore si risolve in una scatola vuota, che ciascuno riempie a propria discrezione” e alla fine viene scambiato per “una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali”. E’ il pastore triste e fragile,  disorientato e il cruccio di Francesco. Guarda i vescovi e li richiama al dovere di rifuggire da quelle tentazioni che “diversamente ci sfigurano”, come le chiacchiere, le lamentele che tradiscono intime delusioni. E poi la durezza di chi giudica senza coinvolgersi e il rodersi della gelosia, l’accecamento indotto dall’invidia, l’ambizione che genera correnti, consorterie e settarismi”. Tutti aspetti che contribuiscono a “lacerare la tunica, a scandalizzare, a deturpare il volto del Signore e a dilaniare la sua chiesa”. Lo sguardo del Papa, ancora una volta, si posa sulle tante parrocchie rette da quei “preti tristi” sui quali mise in guardia nella messa crismale del 2013, quando da poche settimane era stato eletto al Soglio; preti “spesso provati dalle esigenze del ministero e anche scoraggiati dall’impressione dell’esiguità dei risultati”. Uomini che vanno educati, dice il Papa, “a non fermarsi a calcolare entrate e uscite”. Se non c’è allegria, se si narra Gesù “in maniera lagnosa”, si corre il rischio di cadere in quelle tentazioni che minacciano ogni pastore. Compresa “la fretta pastorale”, che al pari dell’accidia porta all’insofferenza, “quasi tutto fosse soltanto un peso”.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.