La malinconia senza trionfalismi nel diario mai pubblicato di Bellocchio

Alfonso Berardinelli

Passo da Piacenza e mi fermo un paio di giorni dal mio amico Piergiorgio Bellocchio. Non lo vedevo dall’autunno scorso. Cosa fa Piergiorgio? Fra i miei conoscenti molti se lo chiedono, se lo sono sempre chiesto e spesso lo chiedono a me. Cosa faccia Piergiorgio sembra un mistero. Tutti fanno o sembrano fare qualcosa, molte cose. Si esprimono, si manifestano, pubblicano libri, scrivono sui giornali, ricevono premi. Si incontrano, prima o poi, in qualche convegno, serata, presentazione, festival, fiera o salone. Piergiorgio non appare, non compare.

    Passo da Piacenza e mi fermo un paio di giorni dal mio amico Piergiorgio Bellocchio. Non lo vedevo dall’autunno scorso. Cosa fa Piergiorgio? Fra i miei conoscenti molti se lo chiedono, se lo sono sempre chiesto e spesso lo chiedono a me. Cosa faccia Piergiorgio sembra un mistero. Tutti fanno o sembrano fare qualcosa, molte cose. Si esprimono, si manifestano, pubblicano libri, scrivono sui giornali, ricevono premi. Si incontrano, prima o poi, in qualche convegno, serata, presentazione, festival, fiera o salone. Piergiorgio non appare, non compare.

    Ma negli ultimi tempi anche la fatidica domanda “che cosa fa Piergiorgio” non risuona più. Da anni è del tutto fuori gioco. Dopo la chiusura della nostra rivista a due Diario (era il 1993) Piergiorgio non ha cercato, né trovato, né gli è stato offerto un posto in cui mettersi. Lui stesso in Diario parlando del futuro si chiedeva: “Ci sarà posto?”. La stessa rivista, al suo primo numero, si apriva con un suo saggio intitolato “Dalla parte del torto”. L’espressione veniva da un’annotazione del “Diario di lavoro” di Brecht, in cui lo scrittore in esilio negli Stati Uniti raccontava una serata poco simpatetica con Horkheimer e Adorno e concludeva così: “Ci siamo messi dalla parte del torto, in mancanza di un altro posto in cui mettersi”.
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    Il dove mettersi non essendoci posto è un tema ricorrente di Bellocchio. A cui se ne aggiunge spesso un altro: l’essere finiti nel posto sbagliato, come attori che entrano in una scena o in un film che non li prevedono, e il regista li caccia urlando “chi è quell’imbecille?”.
    La scena pubblica è affollata. Uno che voglia scrivere a modo suo quello che gli viene in testa, prima intuisce e poi ha la certezza che per lui non c’è posto. E’ proprio il caso di Piergiorgio, che un posto ce l’ha, ma è del tutto privato, un posto che lo rende invisibile, ormai, perfino a Piacenza, dove vive da sempre. Appartiene a un’altra epoca? O semplicemente il suo istinto lo ha portato a mettersi nel solo posto in cui si può scrivere liberamente proprio quello che vuoi e a modo tuo?

    In realtà, lo so bene, il mio amico è autore di un capolavoro che non sarà mai pubblicato nella sua forma reale, un capolavoro (so che lo è) fatto apposta per sfuggire all’editoria. Essendo lui un editore mancato, oltre che un autore assai parco che compare e scompare, o compare e nessuno se ne accorge, la sua opera completa e vera è indefinibile: è uno zibaldone illustrato di duecento grossi quaderni (agende riusate) in cui si sono accumulati nel corso di tre decenni ritagli di giornale, osservazioni, citazioni, elenchi, commenti, ricordi, sogni, didascalie, sketch e battute, raccontini e appunti per saggi da scrivere e mai scritti. Abbondano le immagini rubate a giornali e supplementi settimanali, foto storiche e d’attualità, illustrazioni pubblicitarie. Quello che conta è il montaggio, l’accostamento, la mescolanza, l’alternanza, gli scherzi del caso, il su e giù, l’andare in tutte le direzioni, la documentazione insieme selettiva e senza censure sul “presente come storia”, palinsesto e farsa. Si tratta di un “journal” nel senso che è un diario ma è anche un giornale rimasto privato.
    Ieri sera siamo stati a cena fuori. Il ristorante era buono e abbiamo tutti mangiato troppo. Così stanotte mi sveglio verso le tre, vado in salotto, mi accosto allo scaffale e tiro giù una di queste agende scritte e figurate. Risale al gennaio-maggio 1994, un anno importante per l’Italia.

    Apro e trovo al primo posto, su due pagine, la foto di un gruppo in terracotta di Guido Mazzoni, il “Compianto sul corpo di Cristo” (1475) che si trova nella chiesa di S. Giovanni Battista a Modena. Segue la foto di sei ragazzi americani a braccio teso, pistola in pugno, che puntano un bersaglio. Poi la pubblicità a colori della Pepsi-Cola e della Campbell’s Tomato Soup (o è Warhol?). Poi Mel Gibson pistola in pugno. Altri uomini armati. Il fumetto di una pistola che spara. Una nota dell’autore: “La battuta che si rivolge a chi non accetta le cose come vanno: ‘In che mondo vivi?’. A cui potrebbe ribattere: ‘E’ ciò che mi chiedo sempre’”. Altre foto: Lauren Bacall che accende la sigaretta a Humphrey Bogart. Arbasino che legge a voce alta un suo libro alzando le dita. Eleonora Duse nella “Signora delle Camelie”. Christine Keeler nuda che si copre il seno. Schwarzenegger che punta il coltello alla gola di un uomo, accanto a un uomo che punta un pugnale contro Sylvester Stallone. Walter Benjamin in camicia e cravatta. Burattini bergamaschi colorati (Brighella, Arlecchino, Gioppino). Un barcone di profughi albanesi in vista delle Puglie. La pubblicità di un film di Tinto Brass con un bel culo femminile. Simone Weil bambina sorridente accanto a suo fratello. Berlusconi e famiglia ritratti dal pennello di Rinaldo Gèleng. SA naziste davanti a un negozio di ebrei a Berlino nel ’33. Compaiono poi Vattimo, Eco, Pareyson e Gadamer in un bel gruppo battezzato dal diarista “fritto misto”, con la seguente attribuzione di ruoli, nell’ordine: vongola, sardina, triglia, dentice…

    Le pagine scritte vanno lette e non posso citarle. Ma il pezzo forte del quaderno credo che sia quello costruito intorno a una caricatura di Darwin uscita sulla rivista Punch nel 1882 con la didascalia “L’uomo non è che un verme” (Man is but a worm). La testa calva e il viso barbuto dello scienziato inclinano alla malinconia. Intorno a lui ruotano le vicende dell’evoluzione dal verme in su. Scimmie a quattro zampe, scimmie erette e poi la svolta, l’anello intermedio: una creatura grottesca, una specie di scimmione anziano dal volto satiresco che in stato di ebrezza sghignazza contorcendosi un po’ oscenamente. E’ l’orgiastico animale, per l’ultima volta. Da lì in poi avviene il salto e arriva la serietà: l’homo erectus e habilis, il lavoratore con l’utensile in spalla e in conclusione chi? l’uomo al completo: l’elegantone, il capitalista, il gentleman, baffi curati all’insù, chioma unta, guanti e cilindro in mano.

    Nel suo commento a Darwin “rivoluzionario contro voglia”, Bellocchio include questo passo del poeta Milosz: “Pubblicando nel 1859 ‘L’origine delle specie’ l’autore dichiarò con rammarico che la sua opera professava una ‘teologia del diavolo’. Ciò poteva significare soltanto che egli si arrendeva alle sue stesse osservazioni, che mettevano in evidenza una conformazione della vita non meno raccapricciante per lui di quanto lo fosse per le chiese che ne osteggiavano le teorie”.
    Malinconia dello scienziato. Nessun trionfalismo.