I demolitori

Redazione

L’ultimo sciopero dei tassisti di Milano contro Uber è stato a marzo. I tassisti hanno fermato le macchine per un giorno e organizzato presidi a piazza San Babila e davanti alla stazione Centrale. E’ concorrenza sleale, dicevano, Uber ci ruba i clienti. C’è un’organizzazione, ci sono delle regole, scritte e non scritte, che tutti rispettano da sempre e che da sempre governano il settore, se sei nuovo ti devi adeguare. Ci sono equilibri da rispettare, cautele di cui bisogna tenere conto. Questi americani non possono arrivare con i loro smartphone e le loro app e fare come vogliono, ci rovinano. Il governo e il comune devono fare qualcosa.

di Eugenio Cau

    L’ultimo sciopero dei tassisti di Milano contro Uber è stato a marzo. I tassisti hanno fermato le macchine per un giorno e organizzato presidi a piazza San Babila e davanti alla stazione Centrale. E’ concorrenza sleale, dicevano, Uber ci ruba i clienti. C’è un’organizzazione, ci sono delle regole, scritte e non scritte, che tutti rispettano da sempre e che da sempre governano il settore, se sei nuovo ti devi adeguare. Ci sono equilibri da rispettare, cautele di cui bisogna tenere conto. Questi americani non possono arrivare con i loro smartphone e le loro app e fare come vogliono, ci rovinano. Il governo e il comune devono fare qualcosa. In Francia le proteste dei tassisti sono state a gennaio, e non sono state urbane come quelle dei milanesi. A Parigi, a Lione e in altre città i tassisti hanno bloccato le strade e hanno iniziato ad attaccare le macchine con autista affiliate a Uber. Bloccavano i veicoli, lanciavano uova, squarciavano le gomme con dei coltelli e rompevano i finestrini. Contro Uber sono stati organizzati scioperi e proteste in America e in mezza Europa, la prossima sarà a Londra, l’ha annunciata l’associazione dei tassisti, quelli con le macchine nere e retrò, che ha minacciato di bloccare tutta la città all’inizio di giugno. Anche i tassisti spagnoli hanno annunciato scioperi a Madrid e a Barcellona. In tutti i casi, dove non ci sono stati scioperi, come Berlino o Sydney, i tassisti il cui business è minacciato chiedono ai legislatori e ai governi di intervenire per salvaguardare quei sistemi e quelle regolamentazioni che da decenni proteggono il mercato e che Uber sta rendendo obsoleti. Quasi sempre, i legislatori sono intervenuti.

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    Gli economisti la chiamano sharing economy, perché il principio su cui si basa è quello della condivisione. Alcuni osservatori, più precisi, la chiamano economia peer-to-peer, cioè un business le cui transazioni avvengono direttamente e tra pari, senza l’intervento di intermediari. I giornalisti americani hanno parlato di “disruptor”, parola che significa “distruttori” ma anche smantellatori, disgregatori: coloro che prendono un sistema, lo rendono obsoleto e lo smontano dall’interno. Uber è il più famoso dei disruptor. E’ un servizio di macchine con autista nato a San Francisco nel 2009 che usa una app per smartphone per gestire tutti gli aspetti di una corsa in taxi: Uber usa il gps per mostrare la vettura più vicina alla propria posizione, prenotarla e contattare l’autista. Al momento del pagamento (circa il 20 per cento in più di una normale corsa in taxi), non c’è bisogno di contrattare con l’autista o di lottare per avere una ricevuta. Non c’è bisogno nemmeno di tirare fuori il portafogli, fa tutto la app prelevando la somma necessaria dalla carta di credito. Uber ha molti vantaggi sui taxi tradizionali. Consente di prenotare una vettura senza intermediari, senza bisogno di conoscere il numero del radiotaxi attivo in zona o di sbracciarsi sul marciapiede nella speranza che una macchina si fermi. Il sistema, in cui tutti i viaggi sono controllati via gps, riduce il rischio che il tassista truffi il cliente poco accorto o il turista appena arrivato in città con percorsi troppo tortuosi che allungano il viaggio. Il pagamento attraverso app evita l’uso dei contanti ed è più sicuro sia per il cliente sia per il tassista (a seconda dei paesi, è l’uno o l’altro a dovere temere le rapine). Il sistema di valutazione dei tassisti instaura un meccanismo competitivo che (per ora) rende la qualità delle vetture di Uber più alta della media dei taxi. Anche gli autisti che lavorano per Uber hanno dei vantaggi rispetto ai normali tassisti, possono mettersi in strada con un investimento di poche migliaia di euro, senza doverne spendere centinaia di migliaia in una licenza che li vincolerà a vita (a New York può costare anche un milione di dollari) e possono lavorare dove preferiscono, senza essere legati a un comune specifico, a una zona della città, a una cooperativa. Lavorano come liberi professionisti, e Uber fornisce loro l’infrastruttura necessaria – leggerissima ma efficiente.

    Uber non è l’unico disruptor. Airbnb, un sito americano che consente di mettere a disposizione per brevi periodi il proprio appartamento o una stanza di casa a turisti e viaggiatori. Il sito verifica l’affidabilità dei padroni di casa, ha un sistema efficiente di pagamento e di recensioni interne, e rende facile affittare il proprio appartamento mentre si è in vacanza, o la stanza di tuo figlio mentre lui è andato a fare l’università all’estero. Aereo, una start-up di cui fa parte Barry Diller, uno dei creatori di Fox television più di trent’anni fa, consente di condividere su tablet o su computer il segnale del digitale terrestre. Drivy è una start-up francese che consente ai singoli possessori di auto di prestarsi il mezzo a vicenda e che ha ricevuto da poco un finanziamento notevole dall’agenzia di assicurazioni tedesca Allianz. TripnDrive garantisce il parcheggio gratuito negli aeroporti a patto che si conceda che la propria auto possa essere disponibile per essere noleggiata (dietro compenso). Car2Go, che ha esordito da poco anche in Italia ed è proprietà della tedesca Daimler, consente di noleggiare un’auto anche per poche ore, di sbrigare tutte le pratiche del noleggio con lo smartphone e di lasciare l’auto dopo averla usata in un punto qualsiasi della città. La sharing economy oggi è dovunque, ormai è diventata una moda nella Silicon Valley, decine di start-up nascono con l’obiettivo di fare soldi grazie alla condivisione di beni e cercano di posizionarsi come nuovi disruptor. Decine di queste start-up finiscono anche per fallire, ha raccontato il Wall Street Journal la settimana scorsa. BlackJet, che si proponeva di fare con gli aerei privati quello che Uber fa con le auto e che si definiva “la Uber del viaggio in jet” è fallita l’anno scorso, così come Tutorspree, “la Airbnb per i tutor”.

    L’Economist, che è sempre un passo avanti agli altri, aveva spiegato la sharing economy più di anno fa, e aveva raccontato bene la differenza enorme che passa tra Uber e un servizio di carpooling, tra Airbnb e un bed and breakfast, tra Car2Go e un autonoleggio. La condivisione, in sé, non è una novità. La differenza sta nel fatto che la tecnologia ha ridotto i costi di transazione e ha reso la condivisione dei beni sempre più conveniente e possibile su una scala enormemente più ampia. La novità della sharing economy è il fatto che i beni condivisi sono disaggregati e fruiti come servizi – è per questo che non è del tutto corretto parlare di sharing economy: la condivisione dei beni si trasforma in fornitura di servizi, e le compagnie coinvolte in questi servizi li vendono, per ottenere ampi margini di guadagno. Prima tra un privato che affitta saltuariamente la propria camera e un piccolo hotel c’era una differenza di sostanza, il privato andava cercato, bisognava trovarne uno di cui potersi fidare, e d’altro canto affittare era difficile e poco conveniente. Ora la condivisione di una stanza e il servizio di un albergo possono essere fruiti nello stesso modo: grazie ad Airbnb e altre compagnie simili contrattare una camera con un privato è facile quanto prenotare una stanza in un hotel, in alcuni casi anche di più, e questo rende Airbnb un pericolo per le pensioni e i piccoli alberghi, alla stessa maniera in cui Uber è un pericolo per i tassisti. Quando pensano ai disruptor, tassisti, parcheggiatori, albergatori, uomini della televisione pensano soprattutto a Napster, e a quello che è successo all’industria della musica negli ultimi quindici anni, alla crisi che è iniziata (e che secondo molti sta distruggendo l’industria discografica) quando un paio di nerd adolescenti scoprirono che era molto più facile scambiarsi i file musicali su internet piuttosto che uscire di casa e andare a comprare un album.

    Qualsiasi compagnia innovativa, qualsiasi idea rivoluzionaria è potenzialmente un disruptor. Le invenzioni più efficienti sostituiscono i prodotti obsoleti da sempre, distruggono mercati, abbattono fortune e ne fanno di nuove. E’ la storia della tecnologia, di tutte le rivoluzioni agricole e industriali che si sono susseguite nei secoli. I disruptor dell’èra di internet, però, sono speciali sotto molti punti di vista. La loro ascesa non è segnata dalla nascita di un prodotto nuovo, di un’invenzione rivoluzionaria.
    Uber fa quello che fanno da decenni i taxi e le vetture con autista, nelle camere affittate grazie ad Airbnb non c’è niente di nuovo, e perfino Napster non ha inventato la musica digitale. Non solo: nessuno dei disruptor di internet è, in sé, una tecnologia innovativa. Le app e i siti di Uber e degli altri non sono tecnologicamente straordinari, sono prodotti che qualsiasi team informatico preparato sarebbe in grado di produrre. Al contrario, quando Google fu fondata nel 1998, estese di molto la conoscenza tecnologica dell’epoca. Brin e Page avevano creato da zero qualcosa che prima non c’era, e per farlo avevano dovuto superare le tecnologie disponibili al tempo. Con i disruptor della sharing economy è tutto diverso, né le tecnologie né i prodotti sono nuovi. La vera differenza sta nei numeri, nel modo di fruizione dei servizi e nell’infrastruttura che li rende possibili. I disruptor fanno le stesse cose che fanno i vecchi business, solo che lo fanno in maniera più economica ed efficiente, e lo fanno grazie a internet. I disruptor non creano mercati nuovi, si impossessano di quelli vecchi e li rivoluzionano, distruggono le regole, alterano gli equilibri, liberalizzano le vecchie pratiche. Per questo i business tradizionali li considerano tanto pericolosi, per questo in America e soprattutto in Europa i governi si sono mossi per contrastarli.

    La lotta contro i disruptor è iniziata da poco tempo e si combatte nei parlamenti e nei tribunali. Il fronte più agguerrito è quello contro Uber, che si è fatto nemiche le corporazioni dei tassisti di mezzo mondo. In Belgio, dove il servizio è stato introdotto lo scorso febbraio, due auto affiliate a Uber sono state fermate dalla polizia per la contravvenzione delle leggi sui taxi, e a metà di aprile un tribunale di Bruxelles ha imposto il bando totale sul servizio, oggi gli autisti di Uber rischiano una multa di 10 mila euro se solo provano a far salire un cliente. Il provvedimento del Belgio è il più duro approvato finora, e ha provocato le critiche dell’Unione europea. “Sono scandalizzata dalla decisione del tribunale di Bruxelles”, ha tuittato Neelie Kroes dopo la sentenza, accusando il “cartello” dei tassisti. Nella stessa settimana un tribunale di Berlino imponeva un’ingiunzione temporanea su Uber che sta mettendo a rischio la prosecuzione del servizio nella città. In Italia Parlamento e comuni (soprattutto a Milano e a Roma) discutono da circa un anno sui modi migliori per limitare il servizio. Secondo il Guardian in America, tra divieti, restrizioni, ordinanze giudiziarie Uber ha avuto problemi (e in alcuni casi ancora li sta affrontando) a Houston, Portland, New Orleans, Seattle, Miami, New York, San Francisco, Chicago, Washington, Vancouver e Toronto. L’amministrazione di Seattle, in particolare, ha posto un limite alle vetture affiliate a Uber che possono circolare in città. In Francia, dopo le violenze di gennaio, l’ufficio del primo ministro ha commissionato al Parlamento un’inchiesta durata due mesi sui taxi francesi e su Uber. Il rapporto, rilasciato a fine aprile e firmato dal parlamentare socialista Thomas Thévenoud, consiglia una serie di misure per castrare la presenza di Uber e di altre aziende simili come LeCab. Tra queste, impedire che le vetture di Uber possano usare il gps per essere rintracciate. Lo scorso febbraio il Consiglio di stato francese ha annullato un’ordinanza del governo che imponeva agli autisti di Uber di ritardare le partenze di 15 minuti (a quanto pare erano troppo puntuali per la concorrenza). Frédéric Filloux, giornalista di Les Echos che insieme all’imprenditore Jean-Louis Gassée scrive la (preziosa) newsletter Monday Note, ha definito i provvedimenti del governo di Parigi restrizioni demagogiche. Lo stesso rapporto Thévenoud riconosce che la situazione dei taxi a Parigi è negativa: nel centro della città ci sono appena 3,4 taxi ogni mille abitanti, a New York sono quattro volte tanto, 13,5 – ma a Roma facciamo peggio, i taxi sono 3,2 per mille abitanti. Filloux aggiunge altre osservazioni, che sono facilmente condivisibili: “Vetture sporche, carte di credito non accettate, rappresaglie se non si dà la mancia, maleducazione (come nei bistrot, il cliente è sempre un fastidio), racconti senza fine di stranieri raggirati sui prezzi, mai un taxi quando piove”. Uber e servizi simili risolvono o razionalizzano alcuni di questi problemi. Lo sanno i clienti, che iniziano ad abbandonare i taxi (“Nessuno che abbia meno di quarant’anni e uno smartphone esce più in strada a chiamare il taxi”, ha detto un autista americano a Brad Stone su Businessweek), lo sanno i tassisti. Ma per ogni disruptor che cerca di rivoluzionare un mercato obsoleto c’è una legge posta a garanzia dei vecchi rapporti e delle vecchie convenienze. Quando i tassisti italiani dicono che Uber è illegale, o meglio che si serve di metodi legali per aggirare la legge, non hanno tutti i torti: le leggi italiane (ed europee, e americane), proteggono i tassisti con licenza, bloccano il mercato e rendono impossibile l’ingresso di nuovi player. Lo fanno a scapito della comodità del cliente e della libertà di scegliere il servizio che preferisce, lo fanno per mantenere lo status quo e proteggere (legittimi) interessi corporativi: sono poche, e superabili, le ragioni di sicurezza o di ordine pubblico che giustificano la messa fuori legge di un servizio come Uber, o di qualsiasi altro disruptor. La difesa delle corporazioni contro i disruptor è difesa di una norma di legge che ha smesso di occuparsi dell’interesse comune in favore di ristretti gruppi di pressione. Quando le leggi sono usate per soffocare l’innovazione, a perderci nell’immediato sono i clienti, ma sul lungo periodo è tutto il sistema.

    Controversie simili a quelle che sta affrontando Uber esistono anche per gli altri disruptor. Anne Hidalgo, da poco eletta sindaco di Parigi, appena entrata in carica ha dichiarato guerra ad Airbnb, accusata di inquinare il mercato alberghiero con il suo sistema di condivisione di camere e appartamenti. Airbnb è sotto inchiesta a San Francisco per le stesse ragioni. A New York è stata accusata dal procuratore generale Schneiderman: questa settimana un tribunale di stato ha negato a Schneiderman l’accesso all’elenco degli utenti del servizio, accusati di gestire degli “alberghi illegali”, ma le indagini continueranno. Sempre in America Aereo, la compagnia di streaming, è stata portata davanti alla Corte suprema dai giganti della televisione. Non sempre chi contrasta i disruptor è un nemico del libero mercato. Anche il New York Times, in un editoriale recente intitolato “The dark side of the sharing economy”, ricorda che le leggi sull’urbanistica che Airbnb mette in pericolo (per esempio riempiendo di turisti i quartieri residenziali) hanno un ruolo fondamentale nel rendere vivibile una città. I tassisti sostengono che Uber consente ad autisti poco preparati di mettersi sulla strada, e indicano dei casi sporadici in cui alcuni clienti sono stati aggrediti o maltrattati da autisti affiliati alla società. I disruptor, d’altro canto, dicono che la convivenza è possibile: a New York il costo delle licenze da tassista non si sono deprezzate, anzi continuano a crescere, e uno studio nello stato del Texas ha mostrato che gli alberghi ancora non sentono le conseguenze della crescita impetuosa di Airbnb. Quella contro i disruptor sarà anche una guerra di lobby, e se per ora sembra che i disruptor stiano perdendo è perché le vecchie corporazioni come quella dei tassisti hanno ancora molta influenza sui governi e sui parlamenti. Ma in America le compagnie del tech sono già il quarto finanziatore della politica dopo il settore farmaceutico, quello assicurativo e quello energetico, e presto i capitali dei disruptor (che sono soprattutto americani, il sistema di finanziamento dell’innovazione in Europa è gravemente insufficiente) inizieranno a fluire sotto forma di attività di lobby anche al Parlamento europeo e nelle capitali nazionali. Sarà allora che le leggi che proteggono lo status quo inizieranno a essere in pericolo.

    di Eugenio Cau